lumaca

Abito la stagione della velocità: treni ad alta velocità, internet veloce, “un pranzo veloce che poi scappo!” Le forme di lentezza, dunque, mi incantano: il mare calmo, la marcia della lumaca, la pancia della donna gravida, il nonno che attraversa la strada. La lentezza indifesa di una carezza inaspettata. Non sono un amante della lentezza, ma adoro chi sa insegnarla: le persone detenute, per esempio, miei compagni di viaggio in questi anni di vita. Dietro le sbarre, la vita è condannata alla lentezza: vite rallentate a uomini che hanno vissuto esistenze in perpetua accelerazione, fino a sbandare fuori strada. Ieri la velocità folle, oggi la folle lentezza. Nessun’altra immagine, come quella della detenzione, ci è stata così addosso in questi mesi: vivere con la libertà limitata (“Vietato questo, quello, quest’altro”) non è stato un bel vivere. Una sorta di malavita: “Mi pareva d’essere in galera!” avrà pur pensato qualcuno. Senza avere ucciso nessuno. O, forse, per aver ucciso la lentezza: di fretta, troppi dettagli scivolavano via.
“Adesso finalmente si riparte!” gridano tanti, forzando o rallentando i tempi, chi lo sa (ancora). Si riparte, forse, brindando un po’ più di prima alle cose che ci sono venute a visitare: alle porte che si chiudono, alle strade interrotte, alle storie finite. Perchè c’è una lezione che, con i piedi di velluto, ci è stata data: è nella fine delle cose che s’annidano nuovi inizi: «Nessuno può tornare indietro e ricominciare daccapo – scrisse Karl Barth -, ma chiunque può andare avanti e decidere il finale». Ma esistono davvero persone così? Eccome: ci son persone capaci di ricominciare infinite volte, senza essere attanagliati dalla paura di sbagliare. Sono i primi, però, che quando acceleriamo come bolidi allo scattare del verde rischiamo di lasciare per strada, perdendoci le loro lezioni di lentezza, con annesse ripetizioni sulla ripartenza. Accelerare è un po’ come pensare che basti pulire il pavimento di casa una volta per tutte perchè rimanga pulito. Anche se è Ferragosto, e siamo al mare, in campagna o sui monti, non è cristiano, accelerando, scordarsi della precarietà: abbiamo scoperto esser la nostra prima identità. Nulla di ciò che abbiamo acquisito è acquisito per sempre.
Nemmeno la libertà. Una volta di più, le Olimpiadi di Tokyo hanno mostrato come i titoli olimpici non si ereditano, ma si conquistano: non basta appartenere ad una nazione per assicurarsi una medaglia, è necessario essere all’altezza della sua fatica spesa per costruirli. In galera questo è il pane quotidiano: dimenticare oggi, accelerando, questi luoghi male(bene)detti, è correre il rischio domani di doverli abitare. Perchè non c’è nessuno, come colui che si è visto arrestare improvvisamente, che sappia quant’è delicato ripartire col ritmo giusto.

(Editoriale di Famiglia Cristiana15 agosto 2021)

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