Quello del papa polacco è un pontificato missionario, con forte proiezione planetaria, messianica e apocalittica. Tutta la sua opera tende a rifare missionaria ed espansiva la Chiesa cattolica, com’era una volta. Per questo il papa viaggia “fino ai confini della Terra” e cerca le masse – che stanno allontanandosi dalla religione – poco curandosi delle élite. Viaggia perché si sente investito di una nuova conquista missionaria della Terra e ha cominciato a percorrere i continenti con affanno apostolico, profeta dal grido animoso e dolente, che si lancia a sospingere verso Dio un’umanità che egli vede dissacrata, che vuole riportare a Cristo un mondo gonfio di presunzione e d’orgoglio, il quale adora solo i propri idoli: il potere e il denaro.
Wojtyla è il nuovo Mosè che vuole ricomporre un nuovo popolo di Dio per condurlo, come una vittoria di Cristo, di là da questo secolo, nel terzo millennio del cristianesimo. A Montreal, in Canada, offre la spiegazione del suo pontificato itinerante: un capo, come Mosè, che deve condurre questa terra a Dio, far ritornare questa umanità sulle strade del cielo, questa terra che è “possesso di Dio” e quindi dev’essere “terra santa”. Ed è per questo che egli, il sommo pontefice, il rappresentante di Dio, la percorre in lungo ed in largo per richiamarla alla salvezza. Egli stesso ha parlato di Mosè, quasi come in un’identificazione: “Dio si rivela a Mosè per affidargli una missione. Deve far uscire Israele dalla schiavitù dei faraoni d’Egitto”.
IL GRIDO DI WOJTYLA (di D. Del Rio). “Io grido, io figlio della terra polacca, io, Giovanni Paolo II papa, grido dal profondo di questo millennio, grido…” (Polonia, giugno 1979).
La Chiesa che si avvia al terzo millennio del cristianesimo, ha il pontefice che grida: “Io, Giovanni Paolo II papa, grido…”. Grida, perché dentro il clamore della propria voce, deve far sentire l’eco del grido dell’uomo che invoca la salvezza e del grido di Dio che la vuole concedere. In questa fusione di grido proprio, di grido dell’uomo e di grido di Dio, un papa appassionato, inesausto è apparso sulla scena mondiale; con i suoi viaggi ed itinerari forsennati egli porta la potenza della sua parola in ogni angolo del pianeta che per lui non ha frontiere.
A pochi giorni dall’elezione il successore di Pietro dice: “Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dove essi pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati… dappertutto… vorrei oltrepassare la soglia di tutte le case”. E’ l’ansia di portare ovunque il suo grido di salvezza. Da Roma punta in tutte le direzioni della Terra: dalle basiliche romane agli ippodromi e agli stadi di tutto il mondo.
Papa Wojtyla brandisce la gran croce alta che era appartenuta a Paolo VI, con un Cristo crocefisso tormentato, e comincia a portarsela in giro per il mondo, appoggiandosi ad essa come al bordone di un pellegrino, con quel suo camminare pesante di montanaro polacco. Non ha bisogno di segni pontificali in testa. Ha l’audacia di proporsi lui stesso come segno, con l’esibizione della consapevolezza della propria autorità.
E’ un papa indefesso, instancabile. Deve andare in giro per il mondo perché deve salvare il mondo. Lo fa in nome di Dio. Ma è lui il generale di Dio che conduce la crociata contro il male che divora il mondo e contro le tentazioni che insidiano la Chiesa.
Fosse vissuto nel Medioevo, avrebbe preso per motto “Proeliare proelia Domini” (“Combattere le battaglie del Signore”), che era il vessillo di san Giovanni da Capestrano contro i turchi. Gira il mondo e dice di voler difendere i “diritti di Dio”, resuscitando una formula della vecchia apologetica cattolica e delle battaglie clericali dell’Ottocento e del Novecento. E le battaglie, egli lo sa, portano sangue, il suo sangue. Davanti a lui, che batte le strade dei santuari mariani (il condottiero ha la sua Dama, cui ha dedicato il motto cavalleresco “Totus tuus”), si ergono gli attentatori, proprio il giorno della Madonna di Fatima, il 13 maggio, a Roma; ed esattamente un anno dopo nella stessa Fatima, davanti al santuario. Ma egli rifiuta di ripararsi dietro una difesa. A Lagos, in Nigeria, vogliono metterlo in una macchina blindata. Non la vuole. “La mia difesa è Dio” esclama. Certo, non si può riconquistare e salvare il mondo, calandosi, come in una bara, dentro una macchina blindata. Ma alla fine deve cedere. Ora, quella macchina, il “Papamobile”, gliela impongono, ma perché sono gli altri ad aver paura, non lui.
Il papa si trova tra le mani una Chiesa che sembra disperdersi, assalita da tentazioni secolarizzanti. Come Mosè che riuniva il popolo ebraico per attraversare il Mar Rosso e portarlo alla Terra Promessa, così Wojtyla sente il gran compito di radunare la Chiesa, condurla al di là di questo secolo e lanciarla nel terzo millennio del cristianesimo. E poiché, soprattutto dalle sue radici polacche, egli porta in sé la concezione di un’identità tra cristianesimo e società (“la fede deve diventare cultura”, “bisogna rifare il tessuto cristiano della società”, afferma più volte), si sente responsabile della salvezza e del riordino non solo della Chiesa ma anche della società. E’ evidente, però, che in questo progetto del futuro quelli che contano sono i giovani.
In ogni suo viaggio, Wojtyla incontra i giovani, vuole incontrarli in massa, negli stadi, nei palazzi dello sport, nelle grandi piazze. Anche le celebrazioni liturgiche si trasformano spesso in una gran festa giovanile, in uno spettacolo di suoni e colori. A Caracas, un giovane sale di corsa sul palco dove il papa ha appena finito di parlare. Gli afferra la mano, l’alza in alto e lo proclama “Campeon del mundo” in un uragano d’urla. A Parigi, al Parco dei Principi, nel vecchio velodromo che ha visto i trionfi dei vincitori dei Giri di Francia, un altro giovane lo proclama “Atleta di Dio”.
Le piazze, gli stadi, gli ippodromi, sono le nuove cattedrali del pontefice che parla al mondo, i nuovi luoghi dell’evangelizzazione dell’umanità intera. Le vecchie cattedrali spesso servono solo per raccogliervi gli ammalati o i vecchi, che il papa incontra e benedice.
Nell’epoca della grande fiera dei mass media, Wojtyla è il papa spettacolo, che fa esibizione di sé sulla platea del mondo. Il mondo nordamericano, hollywoodiano, vede un “Wojtyla superstar”, un “Wojtyla superman”. Il mondo sud americano, esaltato dalla passione calcistica, lo proclama “Goleador de la Iglesia”, “Maradona de la fé”, “Trotamundo de la paz”. In un mondo in cui tutti affermano che sono scomparsi i leader, egli appare come l’unico leader. Dovunque arriva, anche nel freddo Canada, negli assuefatti Stati Uniti, nel compassato mondo anglosassone, nella grassa Germania, è un’orgia di immagini di trionfo, ore e ore di trasmissioni televisive.
Ma, mentre viene mostrata la spettacolarità del Regno di Dio sulla terra, sul papa sta in agguato il Regno di Mammona. Wojtyla, con la sua immagine di pontefice, di leader sacro, viene circuito, utilizzato dal potere, quello politico, soprattutto quello economico, perfino quello militare. L’esaltazione del vertice della Chiesa da parte di questi poteri non ha limiti né pudori. Ciò è evidente soprattutto nei paesi poveri, per esempio in America Latina. C’è, è vero, l’accorrere spontaneo, ingenuo, commovente delle grandi masse dei poveri, un accorrere che è denso di speranza, denso del sentimento che arriva qualcuno in nome di Uno, di Cristo, che è amico dei poveri. Ma poi, l’organizzazione del trionfo papale è fatta dalle grandi società industriali, dalle multinazionali, dalle banche, perfino dalle Forze armate. Il papa è assunto ad alto pretesto di pubblicità, cioè di vendita o di propaganda, in un miscuglio di consumismo e d’esibizione di fede. Pagine e pagine intere di pubblicità sui giornali, spot alla televisione, sono pagati da multinazionali, associazioni d’industriali, ditte di prodotti alimentari, società d’assicurazioni per dare il benvenuto al papa. “Tu sei Pietro”, dice la Pepsi Cola a Caracas, mostrando sui giornali e alla televisione una roccia che sorge dal mare. I pennoni e i camion della Pepsi stanno tutt’intorno alle spianate dove il papa celebra la messa. La Pepsi Cola ha l’esclusiva per dissetare i fedeli. In Venezuela, sui giornali e alla televisione, una gran croce luminosa appare sulla cima di un monte. “Tu sei la luce”, dice la Compagnia d’elettricità venezuelana. La cattura dell’immagine del pontefice a scopo pubblicitario avviene, naturalmente, anche nei paesi della ricchezza e dell’opulenza, con coinvolgimenti della stessa Chiesa nel consumismo. Ad Adelaide, in Australia, a conclusione di una messa papale all’ippodromo, un colossale pic-nic a base di salsiccia sul prato è offerto ai centomila fedeli dall’Australian Lager Beer, che immette sul mercato una lattina con il simbolo della visita del papa: una mitria stilizzata e la scritta “Papal visit 1986”.
I viaggi papali costano e si pagano con concessioni di pubblicità ad una birra o alla Paesi Cola. Ma c’è un consumismo più in grande che è posto al servizio dal vertice della Chiesa. Il consumismo è adottato da Wojtyla, il quale anzi ne dà una giustificazione perfino teologica. È proprio di ritorno dall’Australia che dice ai giornalisti sull’aereo che lo riporta a Roma: “Penso che non si debba badare a spese quando siamo stati riscattati a così caro prezzo”. Qui il papa fa un’allusione alla frase di san Paolo, che nella prima lettera ai Corinzi, parla degli uomini riscattati a caro prezzo dal sangue di Cristo. Perciò, vuole dire il papa, per portare il messaggio di una tale preziosa redenzione non si deve badare a spese. Anzi, aggiunge: “Sono cose stupide, quando parlano di spese e cercano di fermare il papa”. La concezione di Wojtyla, infatti, è che tutto debba essere messo a disposizione dei suoi viaggi apostolici. A questi devono contribuire tutti: Chiese locali, lo stato, la società (le società multinazionali). Il pontefice che grida il messaggio di salvezza per il mondo deve avere tutto al proprio servizio: stadi, ippodromi, aerei, elicotteri, forze di polizia, mass media. Il consumismo diventa benemerito per il Regno dei cieli.
L’immagine di una Chiesa povera con mezzi poveri per l’evangelizzazione è aliena da questa stagione ecclesiale wojtyliana. Quella dei “mezzi poveri” era una questione dibattuta fin prima del Concilio. L’eresia dell’“Americanismo” (il darsi da fare in opere esteriori, in mezzi spettacolari e dispendiosi in nome dell’apostolato) era stata condannata. L’abate Chautard aveva scritto un libro contro l’“americanismo”. Era intitolato L’anima di ogni apostolato. Fu un libro di molto successo tra il clero, raccomandato da papi, diffuso nei seminari. Ora è un libro vecchio.
E, tuttavia, anche Wojtyla su questo punto ha delle specie d’oscillazioni, delle contraddizioni. Nell’ultima enciclica, Sollecitudo rei socialis, condanna aspramente ogni forma di consumismo e di sperpero, chiede alla chiesa di liberarsi d’ori e argenti a favore dei poveri. Sa che il Vangelo gli chiede povertà, gli chiede di stare con i poveri, insieme ai poveri, come i poveri. A Bacolod, nelle Filippine, grida: “La Chiesa non esiterà a farsi carico della causa del povero e a diventare la voce di coloro che non sono ascoltati”.
Il filo su cui corre ogni viaggio del pontefice è apostolico; il suo messaggio, come lui non si stanca di ripetere, è religioso: il papa va per il mondo ad annunciare il Vangelo. Per lui l’annuncio del Vangelo incide necessariamente nella vita della società umana. Nei suoi viaggi Wojtyla diventa maestro universale: discute di economia, di politica, di buon governo, di rapporti internazionali. Fa rimproveri, denuncia ingiustizie, chiede libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani. I capi di Stato, i capi di governo, i dittatori, sono ossequiosi, fanno finta di niente, circondano il papa di premurosissime misure di sicurezza. Ma, intanto, questi governanti, questi dittatori, si trovano in casa un personaggio, Giovanni Paolo II, venuto lì a giudicarli, a rivendicare i diritti dei poveri, degli oppressi, che presta la sua voce potente, il suo grido, a chi non può avere voce; il papa che alimenta coscienza di democrazia e aneliti di libertà. Quale uomo o leader, oggi, o mai nella storia, può andare in un paese ad elencare e a denunciare ingiustizie perpetrate in una nazione di cui è ospite invitato, acclamato e riverito? Ciò accade per una potenza personale del personaggio, ma anche per il fatto che egli, dovunque vada, trova un popolo di cattolici che è suo, organizzato dalla Chiesa locale, di cui egli è il capo, cui può parlare con autorità, accolto con entusiasmo e commozione.
In Vaticano, quando deve esercitare le sue funzioni di sovrano e di datore di lavoro, è sottoposto dai suoi dipendenti alle stesse critiche che egli dall’alto del suo magistero lancia sugli altri. La sua immagine di grandiosità che va per il mondo copre a sufficienza, tuttavia, questi aspetti d’amministrazione banale e quotidiana e ridà il sopravvento al personaggio a dimensione mondiale.
Il successo, l’esaltazione, gli ossequi del potere e dei potenti, il fanatismo, Wojtyla li produce, li accetta, talvolta sa che vi si deve sottomettere.
Bisogna, tuttavia, precisare che tutto questo egli non lo fa per vanità personale o per smania di successo. Egli pensa che sia il modo apostolico, oggi, per contrapporre il messaggio di Cristo ai non valori del mondo. Pensa che tutto questo faccia del papato una specie di potere per contrastare altri poteri avversi a Cristo. Il suo itinerare per il mondo ha per fine il “diffondere” il messaggio evangelico, ma anche quello di “contrapporre” questo messaggio alle forze del male. E, poiché questo è il mondo dei mass media, dello spettacolo, egli usa questi stessi mezzi ai propri fini apostolici. Wojtyla ha scelto di governare la Chiesa e d’essere presente al mondo attraverso l’immagine. Se c’è una modernità (se si vuole, anche una mondanità) in lui, è proprio questo.
La grandezza è il segno che si addice a Wojtyla. Appare nella storia come alcuni grandi pontefici del passato. Innocenzo III, nel secolo XIII, dominava spiritualmente su tutto il mondo cristiano (il mondo allora era l’Europa), su corone di re ed imperatori, faceva argine contro l’Islam che minacciava la cristianità. La società era compatta nella cristianità ed egli allora sfogava la sua tristezza e il suo pessimismo sulla condizione dell’uomo. Descriveva l’uomo come un albero capovolto; i capelli come le radici, le braccia e le gambe come i rami.
Papa Wojtyla, invece, esalta l’uomo, esalta la dignità dell’uomo, ma versa il suo pessimismo sulla società, sul mondo dell’Est che rigetta Dio e sull’Ovest che pensa di fare a meno di Dio. Ognuna delle due società crede alla propria capacità di redenzione, alla propria capacità di salvezza. “Il futuro dell’uomo – dice un giorno – non può essere né Mosca né New York”.
Il giudizio che Wojtyla dà sul mondo è spietato. È il mondo come appare nel Vangelo di Giovanni, il mondo che pretende di avere in sé la salvezza, che non la riconosce come proveniente da Dio. Che Dio sia cacciato dalla terra, il papa polacco non lo può sopportare.
Anch’egli sperimenta, forse, ciò che afferma Angela da Foligno, la grande mistica del ‘300: “Internamente l’anima grida”. Wojtyla fa suoi i gesti e gli abbandoni dei mistici. Su ogni foglio che scrive, anche sugli appunti che manda alla Segreteria di Stato, pone in un angolo un’invocazione alla Madonna, tratta dalle Litanie. Dicono che spesso stenda i suoi discorsi stando in ginocchio in cappella, come Santa Teresa che scriveva inginocchiata su una stuoia di sughero, appoggiando i fogli ad un ripiano che sporgeva dalla finestra. È la messa di mattino, il punto della sua massima concentrazione spirituale. A chi vi assiste, Wojtyla appare come estasiato, ma nello stesso tempo come rapito dentro una sofferenza. Lì, nella messa, trae la forza fisica per resistere a tutte le sue fatiche apostoliche. Lì, nella messa, s’immerge nel mistero del dolore di Cristo. Chi lo scruta crede di vederlo soffrire in uno spasimo interiore. È il rapimento dei mistici.
E, infatti, non è un’immagine di sé dolce che egli porta in giro per il mondo. Quello che esprime di sé pubblicamente è semmai l’inquietudine, lo spasimo, a causa di un mondo che non vuole sottomettersi a Dio, un mondo in cui galoppano i cavalli dell’Apocalisse: “La fame, la guerra nucleare, il rifiuto di Dio, l’apostasia, la degradazione morale, il peccato contro la vita dell’uomo fin dai suoi albori”. E allora diventa “araldo che preannuncia rovine”.
Intanto, per far rientrare Dio espulso da questa terra degli uomini, si rivolge anche alle altre religioni: agli ebrei, ai musulmani, ai buddisti. Ma non è, in fondo, che gli diano una mano. In pratica, Wojtyla si trova solo, gran leader religioso, a sentirsi investito di una missione salvatrice del mondo. Perciò percorre la terra in un affanno apostolico, con potenza di gesti e parole, profeta dal grido animoso e dolente.
Il rimprovero che Wojtyla muove alla società moderna è che essa, mentre riesce a provare orrore per i crimini nazisti, si rifiuta di comprendere che anch’essa è già sulla china della completa insensibilità morale. Il nuovo Olocausto, per il papa polacco, è quello che su scala mondiale avviene contro la vita nascente; i nuovi lager sono i reparti di maternità, dove si accumulano gli aborti; le nuove manipolazioni della razza avvengono nei laboratori delle tecniche genetiche; le nuove camere a gas sono i letti degli ospedali dove si pratica l’eutanasia. È qui che nasce la sua passione apostolica, nascono anche le sue durezze, le sue esclusioni. Non ammette che qualche salvezza o liberazione vengano da altri che da Cristo.
Questo è il fuoco di Wojtyla. Egli, come itinerante, ama paragonarsi spesso a san Paolo. “L’amore di Cristo ci spinge”, diceva l’apostolo. Gli esegeti spiegano che non è l’amore di Paolo per Cristo, il povero amore di un uomo, ma è l’amore di Cristo che è dentro Paolo a spingerlo. Così è per Wojtyla. “L’amore è più forte”, è uno dei suoi gridi.
Egli sembra voler mostrare il Cristo come incarnato in sé, il Cristo già glorificato, da glorificare, da servire e da far servire.