simonebiles

E’ tutta gente abituata alla pressione, è tutta gente che vive “sottovuoto” di pressione: d’altronde certi atleti sono macchine perfette. Perfette e terribilmente fragili. Così fragili che anche i migliori, soprattutto i migliori, certe volte possono vacillare, al punto da rischiare di perdere la mappa della propria esistenza. «Ho tutti addosso – ha detto Simone Biles, mito d’America nella ginnastica -: uno lavora per se stesso, ma poi è difficile non misurarsi con quello che gli altri pensano di te». Biles – 4 medaglie d’oro e una di bronzo a Rio 2016 – stavolta è saltata di testa: l’enorme pressione, le pretese, gli sponsor, il prezzo d’essere la stella d’America: «A volte sento tutto il peso del mondo sulle mie spalle». Lei, anche Naomi Osaka, portabandiera del Giappone dopo essere stata scelta per accendere il tripode. Punto, a capo. Poi un selfie di Simone, con il flash delle parole: «Ho i demoni nella testa, non ho più fiducia in me stessa». E’ come se la macchina fotografica, d’improvviso, spostasse l’inquadratura nel dietro le quinte di ciò che tutti vedono dagli spalti, dalla tv: a scandagliare l’anima, sotto la muscolatura, in quel luogo arcano dove un atleta va a nascondere, per poi ripescare, la visionarietà di un sogno, l’inizio di una favola, della sua favola più bella. Altius, citius, fortius: più veloce, più in alto, più forte recita il motto olimpico. Quest’anno, poi, hanno aggiunto together: “assieme”. Il che, a conti fatti, non guasta affatto: ma quando arrivi lassù, ad essere esattamente quel più, scopri che se ci si perde per aria è tutto più complicato. Tocca cercarti altrove, non più in pedana, non nel campo da gioco, nemmeno nel ring di un combattimento. Devi cercarti, per ritrovarti, dentro te. Proprio lì, dove tutto sembra perduto: è la vertigine dei numeri uno. Più in alto vai, più solo sei: più difficile sarà, cadendo, rialzarti.
C’è una vertigine in agguato dentro ciascuno di noi: calcolarla è accettare che il cuore, le emozioni, gli stati d’animo che ci rendono umani obbediscano a delle stelle che, certi giorni, non vogliono saperne nulla di noi, delle nostre ansie e pretese. Quel giorno, sia che tu sia un atleta di spicco sia che tu sia l’ultimo anonimo di questo pianeta, non c’è più luce nel cuore: solo buio, tanto buio, buio infingardo e maledetto. E’ quel disagio, così umano, di dover dimostrare ogni volta d’essere i migliori nel proprio ambito, qualunque esso sia. Finendo per provare le vertigini, avvertendo il peso schiacciante che tutto il mondo gravi sulle tue spalle, mentre tu fatichi tremendamente a reggerlo. A reggere te stesso. Allora non lo reggi proprio il mondo, soccombi: senti che i gesti abitudinari vengono a mancare e tutto quello che fino a poco fa ti veniva di una naturalezza unica, d’improvviso sembra la cosa più difficile, fastidiosa che mai ti sia stata chiesta. Senti di non avere più le forze per farcela. Eppure, se ci pensi, quel volteggio ti è riuscito migliaia di volte, quel rigore l’avevi calciato una infinità di volte mandandolo in rete, quell’atterraggio era diventato il tuo marchio di fabbrica.
Eppure. Eppure stavolta tutto sembra strano, foresto, insormontabile.
Non è lo sport, è la vita. Questa maledetta, entusiasmante avventura che un bel giorno fa sì che il tempo s’arresti e, arrestandosi, ti costringa a rinunciare, a fare un passo indietro, a scoprire che anche tu sei vulnerabile, fragile, che la tua armatura corazzata ha dei nervi scoperti, delle perdite a vista d’occhio. E l’ansia sembra sputarti fuori, rifiutarti, mandarti al tappeto. “Ritornerai più forte di prima!”, dice qualcuno per accorciare la sofferenza. Invece non è affatto vero: ci sono traumi che non si cancellano: restano lì per ricordarci chi siamo (davvero). Sono ventisette anni che Roberto Baggio, ad intervalli regolari, sogna il rigore di Pasadena ad USA ’94. Non è paura, è il prezzo d’essere uomini: «La vera forza è ammettere la propria vulnerabilità – ha detto il nuotatore Michael Phelps, 23 medaglie d’oro su 28 conquistate in cinque edizioni olimpiche -. Ora so che è ok non essere ok. Non bisogna essere perfetti: mi sto impegnando a far capire questo, non è una vergogna avere panico, anche se spaventa». Se dobbiamo cadere, però, che la vertigine valga l’altezza: perchè non è poi così bello vivere al di sotto delle proprie possibilità solo perchè sopra ci sono le vertigini. Dopo Tokyo 2020, anch’io, sotto-sotto, sono (don) Simone Biles. Con tutt’altre sfide in corso.

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