Perché osservare delle leggi? Talvolta, ci sentiamo rispondere che è necessario per la convivenza civile; qualche altra, ci è proposta l’obbedienza come un obbligo, quasi che non sia possibile selezionare un’altra opzione dall’elenco; ancora, qualcuno propone la ribellione come unico paradigma da contrapporre a qualsiasi regolamento.
Cosa dice, al riguardo, la Scrittura?
«Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
2Re 19,9-37
Non per accontentare Dio, dunque; non per ingraziarselo, né per evitarne l’ira. Non perché sia necessario od obbligatorio.
Tutto nasce da una memoria. Memoria di una scelta preferenziale: di Dio. Memoria di una fedeltà: di Dio. Memoria dei prodigi. Compiuti da Dio, in favore di quel popolo, che si era liberamente scelto, senza che questo potesse vantare alcun merito, nei riguardi di Dio. Una memoria che, per i cristiani, diventa qualcosa di più profondo, concreto e reale. Un memoriale, cioè una memoria, capace di rendere realmente presente l’ente cui si riferisce. Così è per l’Eucaristia.
È in questa memoria che s’inserisce l’indicazione di osservare i comandamenti. È un invito oppure un obbligo? Forse, nessuno dei due. È un invito, in quanto interroga la libertà e non può mai costringere. È un obbligo, nel senso che si tratta di un percorso obbligato, per chiunque voglia raggiungere la meta della felicità (tendenzialmente, credo: tutti!).
Forse, proprio qui si situa il grande malinteso. Ritenere, con una forma di neopaganesimo che, per piacere a Dio, è necessario che facciamo determinate. Se le facciamo, allora Dio ci mostra la faccia migliore, ci ascolta, è accondiscendente nei nostri riguardi e ci esaudisce. Se, invece, noi non ci mostriamo diligenti, volenterosi e non ubbidiamo a tutto quello che ci è comandato, allora cominciano i guai.
Naturalmente, non è neppure da intendersi che è auspicabile ignorare i moniti di Dio e vivere come se Dio non esistesse. Quello che però è importante sottolineare è – soprattutto – la necessità di riconoscere il primato di Dio, nella relazione con l’uomo. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16) evidenzia Cristo, nel Vangelo: così come non è stato il popolo d’Israele a scegliersi un Dio, ma si è ritrovato scelto da Dio, senza meriti, ma per una gratuita e insindacabile preferenza ricevuta, così anche la chiesa nascente ha scoperto il proprio volto sulla base delle scelte del Maestro di Galilea.
Sulla base di questo riconoscimento, è possibile porre i passi ulteriori. Nel solco della scelta di Cristo, ogni nostra azione nei riguardi di Dio non ha il potere di cambiare il suo amore verso di noi (Dio ci ama sempre), ma consente a noi di poter fornire una risposta a quell’amore che, provvidenzialmente, ci procede e ci sospinge, pur senza mai sostituirsi alla nostra, sacrosanta ed inviolabile, libertà di opporci alla volontà di Dio.
Rimane, quindi, una questione di felicità. Anche se Dio, talvolta, vorrà chiederci “Vuoi tu essermi fedele, cercando di adeguare la tua volontà alla mia?”, questa domanda, in realtà, si traduce con una molto più semplice: “Vuoi essere felice?”.
Difficile, però, che noi la intendiamo così. Più spesso, vediamo una costrizione ed una restrizione alla nostra libertà.
«Il nostro Dio è un fuoco divorante» (Eb 12, 29): è questo il motivo di «riverenza e timore» dovuti alla divinità. Ma c’è di più: si tratta, anche in questo caso, di una memoria. Paolo sta scrivendo agli ebrei. Sono suoi ex correligionari, gente che ha fatto nell’appartenenza al popolo eletto un motivo di vanto. Il fuoco divorante è memoria del roveto ardente (Es 3), come anche della colonna di fuoco che precedeva il procedere del popolo nel deserto (Es 13 e ss.). In una parola: è segno della presenza costante di Dio, in seno al proprio popolo, nelle angustie come nelle vicissitudini lieti o tristi dell’esistenza. Ricordo che, se la fedeltà dell’individuo, come del popolo, può venire meno, quella di Dio non può venire meno, perché la fedeltà è una sua caratteristica imprescindibile, che Gli viene dall’essere Verbo (Parola in grado di generare un effetto, quindi, di creare).
Ecco perché, nel vangelo di Matteo (Mt 7, 21-29), Gesù dice che «chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia». Se Cristo è il Verbo, questi è parola credibile ed affidabile. Al contrario di qualunque parola d’uomini (inevitabilmente basata sulla fragilità di una volontà che affonda le radici nella natura umana, fallibile ed intaccata dal peccato originale), essa è credibile. Per questo, è possibile affidarLe la vita intera, nella consapevolezza che Dio stesso, al di là delle nostre personali mancanze e fragilità, «completerà per noi l’opera Sua» (Sal 137).
Rif. letture ambrosiane, nel sabato della settimana della XI Domenica dopo Pentecoste
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