staffetta

In quattro, come fossero uno. Il che non è poi così scontato: ci sono giornate nelle quali in quattro non si arriva mai a “fare quattro”: rimaniamo una triste sequenza di uno+uno+uno+uno. “Dopo di me c’è il vuoto!”, diciamo spesse volte, per autoconvincerci che il mondo, senza di noi, non esisterebbe. E’ allora che, pure capacissimi, non diventiamo mai una comunità: rimaniamo dei singoli che competono, vivono, sognano accanto ad altri singoli. Nessuna fusione, insomma. (Ri)pensavo al la magia del numero quattro guardando, stupito, la gara della 4×100 alle Olimpiadi di Tokyo: l’altro oro che non t’aspettavi, l’ennesima cascata di lacrime, occhi strabiliati davanti al gesto atletico del Frecciazzurro d’Italia: Patta (dai blocchi), Jacobs, Desalu, Tortu. Mentre li osservavo passarsi il testimone – in quella ch’è una delle discipline con il più alto rischio di fallimento – mi balenava alla mente un suggestivo pensiero del pittore Vincent Van Gogh: «Non vivo per me, vivo per la generazione che verrà» scrisse in una sua annotazione. E’ il contrario esatto del dire “Dopo di me c’è il vuoto!” Un incrociarsi di pittori, dunque: Olanda chiama Italia, a Tokyo. Perchè la staffetta, tra tutte le discipline dell’atletica, è quella che meglio si addice alla fatica del creare una comunità. Alla vittoria del collettivo. C’è chi pensa d’essere l’inizio e la fine di ogni cosa, della storia stessa; c’è chi vive e accetta d’essere solamente un passaggio, con un suo inizio e una sua fine: “Vivo per la generazione che verrà”. E’ così che correndo – e la corsa ritorna ad essere una metafora impareggiabile del vivere – misuro la strada. E misurando la strada misuriamo noi stessi.
Sul gradino più alto del podio olimpico domani saliranno in quattro: non uno alla volta, nemmeno uno a nome di tutti, tantomeno uno estratto a sorte. Saliranno tutti e quattro assieme, perchè nella staffetta è la somma delle prestazioni di tutti coloro che hanno corso a decretare il vincitore. Chissà se a fari spenti, una volta spenti tutte le luci, questi quattro ghepardi azzurri saranno grandi grandi amici, astuti alleati, o ritorneranno ad essere dei semplici colleghi di lavoro. Che c’importa? Ciò che conta è che nell’istante fulmineo della gara, ognuno dei quattro nutra fiducia nell’altro che lo precede. Pens che ridere se Marcel Jacobs, non fidandosi di Fausto Desalu, invece che correre 100 metri avesse deciso di tirare dritto per altri 100, evitando di passargli il testimone? Avrebbe violato le regole, portando tutti alla squalifica. Oppure se Lorenzo Patta, completata la sua terza frazione, in un impeto di foga fosse andato dritto fino al traguardo perchè non si fidava di Filippo Tortu? Avrebbe rischiato di fare perdere tempo prezioso alla squadra, perchè la sua spinta non avrebbe potuto durare per 200 metri senza avvertire un calo fisiologico. La staffetta, insomma, è una delle metafore più esaltanti per narrare la forza del singolo quando accetta, rischiando in proprio, di diventare un collettivo. Quando l’istrioneria di uno, moltiplicata per quattro, diventa squadra. Squadra imbattibile. D’oro.
E’ pur vero che gli obiettivi dei fotografi, nella staffetta, sono tutti concentrati nel beccare il rush finale dell’ultimo staffettista che ha corso: l’immagine di Filippo Tortu che sprinta passando per primo sotto il traguardo di Tokyo entrerà negli annali della storia di questa disciplina. Ma è anche vero che se lui è riuscito a sprintare, è perchè gli altri tre, dando il massimo ch’era in loro potere, gli hanno permesso di farlo: senza fare errori, rispettando le tempistiche accordate, correndo il più forte possibile. Fidandosi l’un altro. Non è dunque, correre una staffetta, solamente vedere chi è il più veloce. E’ anche l’occasione per vedere chi ha più coraggio: il coraggio della fiducia, del rischio, di sapersi fare trovare ciascuno al posto giusto, nell’attimo giusto, col piglio giusto. Li guardo festanti, abbracciati, nascosti in un tricolore che mai come in questi attimi ci appartiene, facendoci (ri)battere il cuore. Li (ri)guardo e non posso non pensare che il testimone non è solo un oggetto che appartiene alla staffetta: testimonianza, buona o cattiva che sia, è un modo di vivere, di stare al mondo, di condividere. Di vivere la fede: «Non si tratta di me – scrisse Antoine de Saint- Exupéry -. Io sono solo colui che trasporta. Non si tratta di te: tu sei soltanto il sentiero verso le praterie al sorgere del giorno. Non si tratta di noi: insieme, noi siamo il passaggio per Dio, che per un istante prende la nostra generazione e se ne serve». Ancora una volta, l’ennesima, lo sport non è solo sport. E’ un’immagine che rimanda oltre, ad altissima velocità.

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