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Al contrario di quanto dice il salmista (“Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti” – Sal 89, 10), il racconto biblico ci dice che Giosuè abbia raggiunto la ragguardevole ed invidiabile soglia dei centodieci anni.
La morte di Giosuè e della generazione della conquista rappresenta l’inizio dell’infedeltà di Israele. A quest’infedeltà, il Signore li lascia nelle mani degli oppressori, salvo poi intenerirsi, con cuore di padre, di fronte alle invocazioni del popolo.

Questo ci fa pensare alla centralità della memoria, nel nostro rapporto con Dio. Forse, anzi, potremmo dire che il nostro allontanarci da Dio, spesso, è fortemente influenzato dalla memoria.
Ci ricordiamo che Dio chiede il posto centrale nella nostra vita, se vogliamo davvero avere un’esistenza piena e densa, in cui non aver rimpianto di nulla. Spesso, invece, tendiamo ad andare a corrente alternata e a ricordarci di Dio e di quanti doni ci largisce generosamente, solo quando tutto va bene; oppure, al contrario, ci rivolgiamo a lui, magari con ira e fastidio, quando tutto va male, convinti che la Sua volontà sia tenuta a piegarsi alla nostra. Ci è difficile comprendere che ascoltare non significa esaudire e che, nella sua infinita sapienza, Lui sa sempre meglio di noi di cosa veramente abbiamo bisogno, anche al di là di quanto noi chiediamo, vorremmo chiedere oppure ci sembra opportuno chiedere: come dice san Paolo, «non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26 – 27).

 

Nella lettera ai Tessalonicesi, san Paolo non ha remore nel condividere, con i confratelli nella fede, di aver attraversato un momento impegnativo, quando, nel secondo capitolo, inizia, dicendo: «abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte».
Talvolta, il grande malinteso sulla vita è pensare che l’ideale a cui aspirare sia una tranquilla traversata, una crociera liscia come l’olio, la totale assenza di imprevisti. A parte la monotonia che, probabilmente, una simile prospettiva causerebbe su di noi, questo ideale mi pare completamente avulso dalla realtà. Non solo, la vita è costellata di imprevisti, ma anche solo ogni giornata ne comporta qualcuno, piccolo o grande, che fa sì che, difficilmente, riusciremo a rispettare – in modo assoluto – una tabella oraria che descriva in modo stringente e dettagliato ogni minima scansione di essa.
Qualcuno dice che  “la vita è quello che accade mentre ci occupiamo d’altro”. È, in fondo, un modo un po’ più profano per ammettere la stessa cosa: noi abbiamo l’illusione del controllo – o, meglio, forse: vorremmo averla – mentre l’esistenza stessa ci spariglia le carte e ci costringe a cambiare continuamente i nostri piani, ricalcolando il percorso come i navigatori satellitari, a causa degli ostacoli incontrati sul nostro percorso.
Ecco perché è bello poter dire anche noi ciò che possiamo fare “in mezzo a molte lotte”. Le difficoltà ci sono. Ma perché ingigantirle fino a farle diventare insormontabili. Sono tanti i traguardi che è possibile raggiungere, anche quando la situazione non è ottimale: non grazie, bensì, nonostante le difficoltà. Eppure, è altrettanto vero, che pur non avendo un ruolo direttamente coinvolto nell’agevolarci rispetto ad un risultato, in realtà, dobbiamo davvero ringraziare le difficoltà. Perché è solo quando sei nella tempesta che impari ad apprezzare la brezza leggera di un mare persino troppo tranquillo per far navigare spediti a destinazione.
Quella che segue è poi una sorta di apologia dello stile apostolico messo in atto da san Paolo e con chi ne ha condiviso la missione. Se Paolo si sente in dovere di giustificarsi in questo modo, non è da escludersi che sia da addurre alla necessità di difendersi, dopo essere stato messo in discussione. Così, insiste, in particolar modo su due aspetti. Il primo è lo spirito di servizio e di fedeltà con cui la predicazione è avvenuta, per cui garantisce che l’annuncio è avvenuto «non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i cuori» (1Ts 2, 4). Il secondo è «il nostro duro lavoro e la nostra fatica», «lavorando giorno e notte, per non essere di peso a nessuno» (1Ts 2, 9). Entrambi questi aspetti possono essere condensati in quella «amorevolezza» (1Ts 2, 7) che dovrebbe essere l’obiettivo di qualunque pastore e che, in realtà, non è affatto scontata, perché l’amore che richiede la relazione pastorale è quello immerso in dio e che a Dio rimanda, sempre: un amore generoso, che nulla trattiene e tutto dona, sempre pronto a perdere tutto, ma anche a ricevere tutto, purché sia nel nome di Cristo Gesù. Solo in questa libertà di figli di Dio, tra “molte lotte”, si potrà aspirare ad essere quei “servi inutili” (cfr. Lc 17, 10) che promuovono il vero bene della Chiesa di Dio.

Anche il Vangelo riprende il tema del servizio. (che, ai nostri occhi, appare una sorta di “tentativo di raccomandazione” per il Regno, da parte dei due figli del tuono) di Giacomo e Giovanni, Gesù, pur non negando la possibilità loro concessa di condividere “battesimo” e “calice” con Lui, con allusione alla Passione, non si sbilancia però sulla posizione di privilegio che è sottesa alla domanda di poter sedere alla sua “destra” e alla sua “sinistra”. È interessante notare come questa risposta, più che ad una ‘ignoranza’ da parte di Cristo, sia letta come un’assegnazione differente, facendo riferimento, per l’appunto alla Passione, in cui Cristo sarà affiancato da due ladroni e non certo dai discepoli, fuggiti per paura, dinanzi all’incombere dell’ora fatale in cui il Figlio dell’Uomo era consegnato ai peccatori.
Complice questa richiesta, Cristo approfitta per mettere le cose in chiaro, anche per chi gli sta intorno, rispetto alla ricompensa di chi lavora nella vigna del Signore. Non nega, infatti, la necessità che vi siano dei capi, ma ne svuota il senso comune con cui questa parola è abitualmente interpretata. Chi comanda, spadroneggia e si approfitta della propria situazione privilegiata, per trarne vantaggio. La raccomandazione è che questo non sia lo stile della compagine di Cristo.
Se, infatti, è necessario, per il buon ordinamento e funzionamento che vi siano alcuni che decidono, è con “timore e tremore” che dovrebbero avvicinarsi a questo sacro uffizio, nella consapevolezza che ogni loro azione è ordinata al servizio di Cristo, Capo, nel suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. Come lui, dunque, sono chiamati a «dare la vita», in una dialettica di libertà e di amore, al servizio di ogni uomo.

Quello che Cristo dice a chi è chiamato a posti di prestigio nella Chiesa si riflette, tuttavia, a qualunque luogo di preminenza, anche piccola, rispetto a chiunque altro. È nello stile evangelico che ogni ruolo piccolo e grande va assunto, nella consapevolezza che un servizio amorevole e generoso non guarda il risultato, che è nelle mani di Dio, ma, con filiale affidamento, punta solo all’adesione più conforme possibile a quella che è la Volontà del Padre. Ecco perché è nel segno della Croce, che richiama alla trinità e al desiderio di farne parte, che è chiamata ad iniziare ogni nostra giornata, affinché, anche ciò che supera la nostra povera comprensione umana, possa essere accolto alla luce dell’amore di Dio.   


Rif. Letture festive ambrosiane, nell’VIII domenica dopo Pentecoste, Anno B :


Fonte immagine: Twitter

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