Duracell 4

In questi giorni, ricorre una parola: perseveranza. In inglese, forse, ancora più evocativa: endurance. Evocativa, perché richiama la parola durata e, quindi, il perdurare, il persistere di una determinata situazione, ma, al contempo, la durezza, che è condizione intrinseca di tutto ciò che è prezioso, a partire dal diamante. Ciò che vale, ciò che è prezioso, pare dirci la natura stessa, è ciò che dura nel tempo, che gli resiste, con speranzosa tenacia.
Di questo parla Paolo, negli Atti, durante la difesa, di fronte a re Agrippa. Non prima, però, di aver decantato la sua magnificenza come fariseo rigoroso, anzitutto e, in conseguenza di ciò, come efficiente persecutore di cristiani, “rinchiusi in prigione con il potere avuto dai capi dei sacerdoti”, cui dava “la caccia perfino nelle città straniere”:

sto qui sotto processo a motivo della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza (At 26, 6-7).

San Paolo riconosce il solco di una tradizione, la presenza di padri. La fede non è mai personale. È un fatto comunitario, che si concretizza in gesti ed azioni, perché rigetta la possibilità di rimanere (solamente) un pensiero intellettualistico. Innesta le proprie radici nel passato, ma guarda al futuro; un futuro che non interessa (solamente) la generazione successiva, ma si spinge oltre, perché, fissando lo sguardo in Dio, la speranza le dona la capacità di vedere gli sviluppi di qualcosa che – al momento presente – non è altro che un’intuizione, un bocciolo che, solo col tempo, potrà sbocciare.  

Segue la rievocazione, che san Paolo compie, della propria conversione: quella che ha ispirato moltissime opere d’arte, tra cui l’intrigante interpretazione di Caravaggio che, nonostante aggiunga dettagli poco storicamente credibili (come il famigerato cavallo, ormai nell’iconografia collettiva dell’episodio) rimane una tra le opere più suggestive, capace di rendere il senso e l’atmosfera di un evento, quanto meno soggettivamente (per San Paolo) fondamentale, ma anche oggettivamente (per l’intera Chiesa) che, dal più feroce dei persecutore guadagna il proprio “apostolo delle genti”: l’ex-fariseo integerrimo, capace di entrare in dialogo con la fede dei pagani del I secolo.

Non è stato semplice, per Paolo, essere accolto come convertito. Come, forse, ancora oggi, non lo è per quanti, da accaniti avversari, si presentano come mansueti ascoltatori. Forte è il sospetto che si tratti di “lupi travestiti da agnelli”, per poter meglio perseguire i propri scopi. Inutile sottolineare, infatti, che non solo fu necessario che Dio parlasse a Paolo, chiedendogli di cessare il suo furore nei confronti dei cristiani; una volta guadagnato Paolo, fu necessario che i cristiani, Anania in particolare, fossero rassicurati da Dio stesso (vedi At 9) sulla natura dell’arrivo di Paolo tra loro, ora divenuto «strumento eletto».

È Paolo stesso a riconoscere la propria “differenza”, rispetto a chi, come i Dodici, ha direttamente conosciuto Gesù, vivendo con lui un’intimità che non ha eguali oppure i tanti che, tramite la predicazione di questi ultimi, si sono aggiunti pacificamente al numero dei cristiani. Paolo, l’integerrimo fariseo, ha scoperto la liberante realtà di non dover ascrivere a sé i buoni risultati:

Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1Cor 15, 10).

Senza scivolare nel luteranesimo, parlare di grazia è fondamentale per non vivere in un perfezionismo frustrante e, per altro, poco fecondo. La grazia di Dio è la nostra fedele alleata, nel cammino di santificazione che è proprio di chiunque creda.
Anzi, è forse più corretto dire che è proprio di tutti gli uomini, anche solo inconsapevolmente. Infatti, se Cristo ci mostra la pienezza di vita cui tutti aneliamo, può darsi che non tutti attribuiscano al Suo nome il desiderio del proprio cuore, ma ogni cuore d’uomo aspira a quella pienezza che solo una felicità senza fine può restituire. Ecco perché è possibile dire che il cammino di santità (pienezza di vita), anche solo inconsapevolmente, è il desiderio più profondo che abita ogni cuore.
Se accogliamo la grazia di Dio, dunque, essa ci può sostenere in questo cammino, nel momento in cui ci rendiamo conto che è facile cadere in contraddizione, che le nostre sole forze non bastano a raggiungere quel bene che pure vediamo e vorremmo compiere, perché la coerenza non è facile per nessuno e, molto spesso, la cocciutaggine ci fa mettere i bastoni fra le ruote al progetto di Dio.
Pervicacemente radicato nelle proprie convinzioni, solo l’improvvisa cecità e la necessità di affidarsi agli altri ha messo in discussione le granitiche certezze di san Paolo e lo ha dischiuso al Mistero.

Ecco perché san Paolo sottolinea la fatica. Della grazia.
Che, in fondo, è spesso necessaria anche con noi!

Il Vangelo sottolinea, poi, un altro strumento utile ad alimentare quella perseveranza nel cammino intrapreso che è necessaria per non vanificare i passi precedenti: il Paracleto, lo chiama. Che significa “avvocato difensore”. Questa è la peculiarità dello Spirito Santo. Se avvertiamo sensi di colpa, non è lo Spirito Santo. Se ci svalutiamo e pensiamo di non valere nulla, non è Lui. Lo Spirito Santo, piuttosto, ci illumina sul senso del peccato e ci spinge al desiderio di bene, questo sì. Nello specifico, è un Maestro, che, anzitutto, ci ricorda le parole del Verbo, cioè la Parola di Dio, alla luce della quale dovrebbe aprirsi e chiudersi ogni nostro giorno, per guardare con speranza al domani che verrà.  

 


Rif: letture festive ambrosiane nella VI domenica di Pasqua, anno B

 

Fonte immagine: ssinetwork

Per approfondire, sullo Spirito Santo: 
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