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“Maestra, non ti sento!”
“Ragazzi, non vi vedo, attivate la videocamera!”
“Oh no, si è bloccato tutto!”
Per chi ha dei ragazzi in età scolare, o chi è un docente, queste sono le frasi più ricorrenti della settimana appena trascorsa. Se esistesse una classifica delle espressioni più usate in questi ultimi giorni, il podio sarebbe più che assicurato.
Questa tipologia di Didattica a Distanza non piace a nessuno, siamo onesti. Non piace agli studenti, anche se trovano comodo fare lezione in pantofole. Non piace a chi insegna, perché tra la connessione più traballante di un funambolo ubriaco, i familiari nei paraggi che chiedono attenzione, le varie ed eventuali, bisogna trasformarsi in un mostro mitologico con cento occhi, altrettante braccia e capacità sovrumane. Tuttavia si fa di necessità virtù, provando a vedere il bicchiere mezzo pieno, cioè la transitorietà di questa situazione e la necessità di preservare la salute pubblica. Proviamo a pensarci, se tutto questo fosse avvenuto solo una ventina di anni fa avremmo avuto meno della metà delle possibilità che abbiamo oggi: niente videolezioni, nessuna possibilità di sentire in tempo reale studenti e insegnanti, telefonate e passaparola interminabili tra genitori e docenti. Quindi cerchiamo di raccogliere tutto quel che riusciamo a trovare di buono, fosse anche solo qualche pagliuzza. Anche perché, se ci si ostina a fissare solo quella parte di bicchiere mezzo vuoto, si finisce per dimenticare di assaporare quel liquido che lo riempie.
Non tutta la tecnologia vien per nuocere. Poter interagire con altre persone, in tempo reale, trovandosi a chilometri di distanza, è comunque qualcosa di grandioso. Seppur con le limitazioni che uno schermo porta con sé, l’abbraccio virtuale per me è senz’altro meglio del silenzio: si ha comunque la possibilità di vedere il sorriso altrui, di sentirne la risata, di scambiarsi le opinioni osservandosi negli occhi. Anche quando la connessione ha qualche attimo di svenimento e tutti noi sullo schermo ci blocchiamo come belle statuine, colti in espressioni tragicomiche che spero finiscano nel dimenticatoio prima di subito.
Tutto bello e roseo, quindi? Ma nemmeno per niente.
Questa Didattica a Distanza è un’autentica sfida. Per insegnanti e studenti. E per chi dovrebbe pensare all’Istruzione pubblica ed inclusiva, perché mette a nudo invece tutte le crepe di un sistema che troppe volte lascia ancora indietro i meno abbienti o coloro che hanno poca dimestichezza tecnologica: è come scoprire una ferita, si riuscirà ad intervenire per risanarla?
Per quel che mi riguarda, mi costringe a pensare ogni giorno, per ogni lezione, a come bucare lo schermo per farmi vicina ai miei alunni. Mi costringe a rinnovarmi in ogni momento, facendomi mettere alla ricerca di idee sempre nuove e coinvolgenti, affinché il sapere che amo trasmettere non sia qualcosa di già bello, pronto e confezionato, ma un seme da affidare con tutta la fiducia possibile. Se pretendo di insegnare allo stesso modo di quando mi trovavo in aula, ho già sbagliato in partenza. È come se pretendessi di far navigare un magnificente veliero nella stessa maniera con cui si conduce la piccola barchetta a remi del laghetto di Villa Borghese: ne verrebbe fuori un autentico disastro.
Pensare che la passione per la conoscenza e le nozioni si trasmettano solo stando seduti su banchi e cattedra è qualcosa di così riduttivo che mi vengono i brividi al solo pensiero. Tutto quel che ci capita nella vita è una enorme scuola, tutto quel che ci capita può essere fonte d’insegnamento ed apprendimento, se ci educhiamo l’un l’altro ad osservare ed osservarci. Anche attraverso uno schermo, se necessario. Con l’ovvia speranza di tornare ad abbracciarci il prima possibile e che questo tempo si possa ridurre a memoria da cui abbiamo imparato qualcosa. 

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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