La liturgia ci porta nel deserto, a condividere, con Mosè ed il popolo eletto, le vicissitudini di una moltitudine in viaggio verso una promessa che, col tempo, rischia di affievolirsi e sbiadire, nella mente, nel cuore, nel desiderio, nell’immaginazione.
È il capitolo 11 del libro dei Numeri. Un incendio all’accampamento, conseguenza delle lamentele degli Israeliti, richiede l’intervento di Mosè, che si fa mediatore presso Dio per il suo popolo e, pregando, ne placa la collera.
In seguito, abbiamo la protesta degli Israeliti, perché sono giorni che mangiano la manna che “aveva il sapore di pasta all’olio”. Il confronto pare impietoso. “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto, gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna”.
Già. Tanti bei ricordi. A quanto pare, però, uno sembra essere del tutto omesso (dimenticato?): l’oppressione, la mancanza di libertà e le conseguenti prepotenze che gli ebrei hanno subito per anni, alla corte del faraone. È da questi versetti che è rimasta famosa l’espressione di rimpiangere le cipolle d’Egitto, letta come quella di chi guarda con entusiastica nostalgia al passato, incapace di cogliere, però, il bene donato del presente. In effetti, se ci pensiamo, al leggere questo ricordo, viene quasi l’acquolina in bocca anche noi. E, del resto, anche noi, spesso, ragioniamo così. Ci focalizziamo su quello che ci manca, non apprezzando quello che abbiamo conquistato. Vogliamo la libertà, ma senza perdere la comodità.
Al contrario di quanto fatto in precedenza, rispetto all’incendio nell’accampamento, in cui Mosè incarna il proprio ruolo di mediatore tra Dio ed il popolo, si fa garante dell’alleanza ed interviene, quindi, in favore del popolo, stavolta, amplifica le lamentazioni. Sente sulle proprie spalle la responsabilità di questo popolo che viaggia nel deserto, si lamenta per il suo numero e arriva, addirittura, a chiedere la morte, come salvezza dalla sventura della propria incapacità (vedi vv. 11-15).
Forse, una storia, ci aiuta ad entrare meglio nella questione:
Il padre guardava il suo bambino che cercava di spostare un vaso di fiori molto pesante. Il piccolino si sforzava, sbuffava, brontolava, ma non riusciva a smuovere il vaso di un millimetro.
«Hai usato proprio tutte le tue forze?», gli chiese il padre.
«Sì», rispose il bambino.
«No», ribatté il padre, «perché non mi hai chiesto di aiutarti» (Bruno Ferrero, 40 storie nel deserto)
A volte, anche noi ci comportiamo allo stesso modo. Ci illudiamo che il nostro sforzo debba portare al risultato e, se il bisogno che avvertiamo intorno a noi,
Ecco perché, prima di intervenire in favore del popolo d’Israele, Dio richiama lo stesso Mosè al proprio ruolo. È un dettaglio importante, perché sottolinea che Dio ci chiede sempre qualcosa che oltrepassa le nostre forze, che, a contare solo su noi stessi, non riusciremmo a fare, perché Dio ci chiedere di essere protagonisti di un progetto fatto su misura per Lui, non sui nostri limiti. Ma se l’opera è di Dio, troverà Lui il modo di farci arrivare a compierla.
A lungo, Mosé borbotta, rispetto al numero degli Israeliti troppo ampio, perché la sua fame possa essere saziata, tanto che il Signore risponde, piccato: «Il braccio del Signore è forse raccorciato? Ora vedrai se la parola che ti ho detta si realizzerà o no» (v.23). Mosè, in questo frangente, dubita non solo di sé, ma della stessa natura del Verbo divino, che (non solo tramite il Prologo giovanneo, ma anche tramite Genesi) sappiamo avere il potere di realizzare ciò che promette.
«Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?» (vv.19 – 21)
Così è, infatti: l’accampamento è ricoperto di quaglie, tanto che, annota l’autore, chi ne prese meno, prese 10 homer (corrispondenti a più di due metri cubi!). Questo dettaglio mi fa pensare a San Paolo, quando parla del dono dello Spirito Santo: «nemmeno sappiamo cosa conviene domandare» (Rm 8, 26). È profondamente vero. Se ci pensiamo, l’esperienza del popolo d’Israele non è così lontana dalla nostra quotidianità. Non vedono il bene della libertà, dimenticano che è grazie a Dio che sono usciti dall’Egitto, lo stesso Mosè non crede che Dio possa dare carne a sufficienza al proprio popolo. E, come spesso accade, la punizione è inflitta dalla richiesta stessa. “Volevate carne, eccovela! Con un’abbondanza da lasciarvi senza fiato!”. Siamo afflitti quando Dio, così ci sembra, “non ascolta le nostre preghiere”. Forse, dovremmo ringraziarlo per non averci ascoltati. Perché, alle volte, vorremmo metterci al Suo posto e dirGli cosa sia più conveniente fare con la situazione economica, politica, religiosa mondiale. Peccato, però, che, come tutti gli uomini, non siamo in grado di leggere il cuore e guardare il mondo con lo sguardo di Dio. Allora, forse, in un momento di lucidità, sarebbe meglio, deporre le nostre parole, metterci in ascolto della Parola e domandare soltanto un cuore pronto e disponibile per la Sua volontà, anche quando sopravanza le mie capacità di comprensione.
Anche nel brano evangelico, tratto dal capitolo 14 di Matteo, abbiamo una folla affamata. Ma la situazione è un po’ diversa.
Anche qui si parla di deserto: è Cristo che lo va a cercare; il suo allontanamento, però, non basta a scoraggiare le folle, che lo seguono, ovunque vada. Così è il cuore dell’uomo: rimane affascinato dalla libertà che promana quest’uomo, che “parla come uno che ha autorità”. Al vedersi trovato, Cristo non si sottrae e, quale prima opera, guarisce i malati. Sappiamo bene che il male fisico non è mai solamente tale, agli occhi di Cristo. Rimanda – inevitabilmente – a quello che è il male più grande, il male assoluto, il peccato che ci allontana da Dio e dai fratelli, spezzando la Comunione. In questa lotta contro il Male, sembra che Cristo perda la cognizione del tempo.
Sono i discepoli, forse perché più sensibili – anzitutto – alla propria, di fame e preoccupati – con sano realismo, come Mosè! – di non essere in grado di sfamare questa moltitudine, a farGli notare lo scorrere del tempo e ad invitarLo a congedarla, perché si procuri da mangiare. Forse si tratta della soluzione più semplice, magari, però, sono colti dalla tentazione di approfittarne per avere “Gesù tutto per sé”. Sta di fatto che Cristo non perde l’occasione per invitarli ad un coinvolgimento più in prima linea nella vicenda, con un «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14, 16) che risulta, quanto meno, ambiguo, a seconda di come interpretiamo quel “voi stessi” (rafforzativo dell’imperativo, abitualmente senza soggetto, oppure complemento oggetto). Nel primo caso, Gesù si limita a caldeggiare un interessamento dei discepoli, nel secondo, se il “voi stessi” è complemento oggetto, l’invito è a diventare cibo per i propri fratelli, quindi, sulla scia di Cristo, che offre la vita per l’umanità, diventare uomini di Comunione, capaci di spezzare la nostra vita, in dono ai fratelli.
In ogni caso, la sollecitazione va a segno. Il loro sguardo si fa più ampio. Non guardano più solo al proprio stomaco. Guardandosi intorno, però, non trovano conforto nel cibo a loro disposizione e fanno presente la scarsità: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Era un evidente tentativo che si aspettava d’essere una sconfitta, non certo di sentirsi dire: «Portatemeli qui», come, invece, avviene.
Come, del resto, avviene spesso. Ognuno di noi ha i propri “cinque pani e due pesci”. Li guardiamo, con sufficienza. Li irridiamo, sottolineandone i limiti, la pochezza, la scarsità, per confinarli nell’inadeguatezza, nel momento in cui li presentiamo a Dio. Convinti che possa disprezzarli e dirci che non è abbastanza. È qui che Dio ci stupisce. Perché se l’offerta viene da un cuore generoso, quel poco è il tutto disponibile (come l’offerta della vedova, al tempio, in Mc 12) ed è più che sufficiente, se consegnato nelle Sue mani. Anzi, come vedremo dagli avanzi raccolti in seguito: è abbondante.
C’è un altro dettaglio che ci regala il Vangelo e che rischia di passare inosservato: li fa sedere sull’erba: un dettaglio che ci dice l’attenzione e la cura del Maestro, che non fa sedere la folla dove capita, ma si premura che siedano nel miglior posto possibile.
Riprendendo la ritualità antica, anticipando l’estremo sacrificio della Croce, Gesù benedice il cibo che è stato donato e lo consegna ai discepoli, affinché lo distribuiscano alla folla. Ancora una volta, quindi, richiede la collaborazione.
Come Mosè, anche i discepoli rivestono il ruolo di mediatori. Più di Mosè, nuovo Mosè, è Cristo che si assume la responsabilità del popolo. È a Lui che dobbiamo guardare, nel deserto della nostra esistenza, quando la fatica e la fame si affacciano e rischiano di non abbandonarci. È Cristo che troverà per noi ristoro.
Una volta saziati, restano ancora 12 ceste da raccogliere. Dodici, come le tribù d’Israele. Un numero non casuale. Hanno mangiato in cinquemila, come una legione. Ne è avanzato ancora.
Era cibo gratuito, ma prezioso, proprio perché offerto. Non ne poteva andare sprecato nulla. Come il sangue di Cristo, che sarà versato totalmente per noi, fino all’ultima goccia, per un sacrificio che valesse una volta per tutte.
Rif. Letture festive ambrosiane, nella III Domenica dopo l’Epifania, anno B
Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
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