Pope Francis delivers an extraordinary "Urbi et Orbi" (to the city and the world) blessing - normally given only at Christmas and Easter - from an empty St. Peter

Non so se quand’era bambino, tra le migliaia di immagini che popolano la foresta della nostra fantasia in quell’epoca, papa Francesco sognasse di diventare un astronauta. Quando lui era piccolo, poi, sbarcare sulla Luna per l’uomo era ancora il grande sogno proibito, l’impossibile che il mondo intero aspirava a rendere possibile: la storia, ad un passo dal possibile. «Si deve prima asfaltare tutta la strada» gli avrebbe risposto qualcuno se, soltanto, avesse chiesto come si faceva ad andare fin lassù, per poi guardare il mondo dall’alto. Con lo sguardo di Dio. Il 27 marzo, quel venerdì entrato nella storia tutto d’un getto, ho pensato che quella volta – io non ero ancora nato – dev’essere stato molto simile a quella Piazza il suolo lunare se l’eterno secondo Buzz Aldrin, appena sceso dopo Neil Armstrong, disse: «Che magnifica desolazione!» Il vuoto del suolo lunare, il vuoto della Piazza più cara e sacra all’intera cristianità. Il mondo, in quelle settimane, viveva in un perpetuo stato d’assedio, il terrore scartavetrava i cuori, anche la Terra sembrava essere diventata zona-maledetta. Rosso-sangue. Tutti a promettere la luna – «Per anni i politici hanno promesso la luna. Io sono il primo in grado di darvela» disse Richard Nixon il 20 luglio 1969 -, ma solo l’uomo vestito di bianco tentò la sfida di riportarci tutti (assieme) in quella benedetta Luna. La stessa di san Giovanni XXIII in apertura di Concilio.
Quando l’ho visto salire quella gradinata in solitaria (non era da solo, però), cavalcare quello spazio immensamente vuoto, la tenerezza mi ha devastato l’anima. Per un attimo mi son sentito in colpa d’avergli suggerito quel gesto: “Sarà mai possibile – mi dicevo seduto davanti alla TV – che un uomo trovi tutto questo coraggio, si addossi tutta questa paura, si avvii a sfidare il vuoto in quella maniera che ai più potrebbe sembrare temeraria?” I giorni precedenti quella serata li ricorderò come pagine indelebili della mia personale storia della salvezza: dopo l’appello alla tv – ch’era l’appello collettivo avanzato dai nostri avanzi di galera – abbiamo parlato a lungo per telefono, abbiamo discusso sul concetto di vuoto, sull’immagine della tempesta, sulla potenza universale di cui è capace Pietro con i suoi gesti. Sull’urgenza urgentissima di aprire una trattativa con il Cielo, come ai tempi di Mosè, prima che fosse troppo tardi. In quei colloqui, al mio cuore bambino sembrava di essere dentro la stanza di Neil Armstrong a condividere con lui le ore finali che precedettero la sua più grande impresa. Avvertivo tutto il suo cuore nelle parole confidate, la sua analisi minuziosa, la sua visione d’insieme, l’attenzione saggia e sapiente – “Preghiamoci tanto, mi diceva, il rischio di scivolare dalla profezia al ridicolo è altissimo. Il diavolo è in agguato in questi momenti!” -, l’apprensione di un uomo che, in certi attimi, avverte sulla pelle un cambio di marcia repentino, sempre inaspettato, una sorta di clic: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Quel vuoto era l’universo da riconquistare, le colonne d’Ercole da attraversare, il Camino Bill del K2, la foresta di Aremberg alla Parigi-Roubaix: tutti assieme, moltiplicati per x che tende all’infinito. Tutti, in quelle giornate, si avvicinavano a quel vuoto, lo studiavano, lo misuravano, lo fotografavano al microscopio. Erano tutt’intenti a capirlo. Lui, ispirato, fiutò quello che da sempre sapeva: che in materia di fede occorre sempre amare per poter capire, non è possibile prima cercare di capire e poi decidere se amare oppure no. “Non sei da solo, c’è una Chiesa che ti tiene per mano” gli dissi nell’ultima nostra telefonata prima di quella sera. Lui, da grande generale d’armata qual è: Non dimenticarti di pregare per me. Sono le solite parole, pensai. «In Argentina si raccomanda di non cambiare il cavallo mentre si guada il fiume» mi disse. Afferrai al volo che non erano le solite.
Quando l’ho visto là in mezzo, mi sono sentito a casa nel suo sguardo: sono tornato bambino quando, durante il temporale, andavo a sedermi in braccio al nonno. Ero anch’io sulla Luna quella sera, io e tutti i miei fratelli che s’erano dati appuntamento alla tv: c’era una guerra in atto, il nemico era tutto invisibile, l’alleato amava confondersi all’avversario e viceversa. Però, lì in mezzo, c’era un uomo che aveva avuto il coraggio di bucare quel vuoto: era entrato armato di Vangelo e silenzio, l’aveva attraversato tutto per andare ad abbracciare il Crocifisso e la sua (ma)Donna, poi si era seduto giusto in mezzo. E lì, nello spazio vuoto della paura, ha dichiarato guerra alla guerra: «Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo (Amen)». E’ stato uno dei più grandi atti pacifici della storia universale: Beati i costruttori di pace. Ha vinto in quell’attimo, nell’attimo in cui ha pronunciato il Santissimo Nome impronunciabile, nell’istante in cui ha spostato tutto per far rimettere il piede a terra a Cristo. Quella sera eravamo in Quaresima, ma sembrava d’intravedere già le luci di un nuovo Natale. Di una nuova (ri)creazione. «Quando ho guardato la Terra, in piedi sulla Luna, ho pianto», disse Alan Shepard durante la missione Apollo 14.
A guardare il mondo dall’alto abbiamo imparato quella sera. Potenza di un gesto (dis)umano, di un Cristo in azione.

Buon fine d’anno.
Che Dio ci perdoni (anche) l’imperdonabile!
don Marco Pozza

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