Di primo acchito, l’impressione non è affatto emozionante. La bellezza, però, è un po’ come la montagna: non si concede al primo che ne tenta la scalata, ma alla fine premierà l’innamorato fedele. Colui che, per sedurla, avrà saputo pagare con la moneta della fatica, dei tentennamenti, dei tentativi. Il presepe di Piazza San Pietro è sempre stato uno di quelli più attesi: vista la posizione nella quale rimarrà per oltre un mese, per la predilezione d’essere (ri)guardato dal Papa, per l’esposizione mondiale che viene riservata a tale opera d’arte. Il presepe, comunque, è sempre il presepe: «Fermiamoci a guardare il presepe: entriamo nel vero Natale con i pastori, portando a Gesù Bambino quello che siamo» disse Papa Francesco in occasione di un Natale. E’ legge della critica, poi, che non sempre piace ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Punto. Questo presepe, i critici d’arte del pc (che corrispondono in misura più o meno proporzionata ai critici d’arte del Papa), hanno deciso che non piace.
Quindi, siccome non piace a loro, non deve piacere a nessun altro. Chiaro?
L’analisi è rigorosissima: “E’ obbrobrioso! Un incubo. ‘Na schifezza”. Poi, com’era ovvio, la colpa è di Papa Francesco. Figuriamoci: “Adesso è chiaro: ha rotto completamente con la tradizione. Questa bruttezza incarna perfettamente la decadenza di una certa cattolicità, in parole e opere (si sono scordati le omissioni e i gesti, accipicchia!). Il modernismo del Papa eretico”. La solita solfa: diversamente dalla bellezza, che quando ritorna non lo fa mai col solito vestito, l’asprezza quanto torna torna con il suo solito grado d’acidità. Si potrebbe dissentire benissimo, senza per questo denigrare, dicendo che quest’anno il presepe – che arriva da Castelli, borgo d’Abruzzo con il Gran Sasso alle spalle, l’Adriatico davanti – non è per tutti i palati. “Che strano!” è stata la mia prima impressione: mi pareva un presepe popolato di scafandri, abitato da matrioske, senza elementi paesaggistici tipo la grotta, i ruscelli, i ponti levatoi e le cornamuse. La moquette al posto del muschio, un cielo di vetro e d’acciaio. Guardandolo mi pareva di vedere una sorta di galera colorata, una bellezza che pare intrappolata, una strana mescolanza di consolazione e disperazione. Sono andato a leggere la sua genesi, i suoi perchè, la sua storia: ogni presepe, come ogni Natale, nasce dentro una storia concreta, fatta di gesti e contesti, di fede e di incredulità, di conquiste e di fallimenti. “L’importante è che ci sia il Bambino” è sempre stata la raccomandazione della nonna quando lo facevamo da piccoli. Aveva ragione: è bastato Lui, quella volta a Betlemme, per fare di un ovile la reggia del Re più discusso della storia. Basta Lui, ancora oggi, per fare di una cella di galera il posto migliore per (ri)nascere. Lui, in questo presepe, c’è. Ed è al centro. Basta, e avanza.
Non importa che quello di san Pietro sia il presepe più bello del mondo, ciò che conta è che parli all’uomo e alla donna d’oggi, che funga da pungolo e carezza. Ciò che conta, insomma, non è solo la bellezza di un’opera ma anche la verità. Con il pensiero a tutto quello che abbiamo passato, che stiamo passando, è il presepe più vero che potevano costruire: il 2020 rimarrà l’anno della bellezza intrappolata. Intrappolata dentro: un ospedale, una galera, uno scafandro, una macchina d’ossigeno, una bara, un camioncino dell’esercito. La bellezza c’era, ma a farsi notare sono state le gabbie che la occultavano. Non c’è il muschio, le stelle cadenti o le giravolte di arcangeli: manca la magia, perchè quest’anno è stato senza magia. Però c’è la drammaticità del Natale: la bellezza, anche se intrappolata, c’è. Si nota, sguscia fuori. E’ come un palombaro dentro uno scafandro: “Avvicinati: liberami tu!” pare dire allo spettatore. E’ lo strillo del Messia Bambino, stesso grido di Betlemme: “Mi daresti una mano a scendere dal Cielo, per favore?” E’ il grido degli esclusi: “Liberateci! Abbiamo una bellezza dentro da offrirvi!” Mi commuove questa sacra raffigurazione del Natale: è l’avventura di tutti gli intrappolati della storia. “Non è che la tua faccia sia meno di ceramica quando parli di me – reagisce Dio -. Non per questo mi vergogno di nascere da te”. Senz’alcuna misura precauzionale, tra l’altro.
(da Il Sussidiario, 15 dicembre 2020)