Andrea Zanzotto, uno dei massimi poeti veneti scomparso qualche anno fa, aveva attinto dalla tradizione, quella della sua gente, un termine che poi, nella sua poetica, è diventato ricorrente e indispensabile: petèl.
Il petèl è la lingua dei bambini, o meglio, dei lattanti, dei neonati. Indica il loro balbettare, un desiderio ancestrale di arrivare alla parola, quella che ascoltano da chi li circonda, soprattutto quella che odono, come melodia ineguagliabile, dalla voce della madre, che attraverso la parola li culla, li quieta, li ama. In termini più tecnici, rispetto a come l’intendeva il poeta, si parla di “lallazione”.
In maniera goffa e buffa, anche gli adulti, di fronte a quei bambini che incedono verso la parola, tornano ad utilizzare il petèl, lo inventano al momento, vogliono farsi più prossimi, con quella lingua primitiva, all’oralità degli infanti. In un certo senso, quel tornare alla lingua primigenia, fa tornare bambini essi stessi, crea in loro una nostalgia grande di un’epoca passata in cui la vita era tutta avanti e non già dietro. Di quel petèl, del loro petèl, hanno infatti perso ogni padronanza, è un linguaggio che non comprendono più, non soltanto come forma linguistica, ma pure come dato simbolico. Solo chi è a stretto contatto con quella lingua riesce ad intenderla.
È il caso di ogni madre che, così visceralmente legata al suo bambino, riesce ad entrare in una relazione così profonda con quel linguaggio, con la lingua del suo piccolo, che è possibile una forma di comunicazione solo tra loro due. Chi viene da fuori, chi è esterno alla famiglia, non capisce minimamente cosa vuol dire quel bambino, cosa abbia da comunicare. La mamma, ma anche il papà, i fratelli, le sorelle, invece, sì, lo comprendono. La madre, però, più di tutti.
È pertanto una lingua propria di quei due, una lingua singolare, fatta di termini che riguardano solamente quella relazione.
Questo sforzo del bambino verso la parola è in-umano, perché la Parola è da Dio, così che in un bambino non ancora intaccato dal male, non ancora in grado di sceglierlo, si manifesta la sua voce.
Chi ha avuto figli, o chi ne ha ora, in questo momento, di piccoli, neonati, sa bene cosa significhi quel linguaggio.
Stesi accanto a lui, ascoltando quelle parole, le sue parole, quelle che può capire solo chi gli è a fianco giorno e notte, ci viene rivelato un aspetto di questo evento linguistico, ossia che anche Gesù si è espresso con il suo petèl.
Se, per un momento, ci si concentrasse sulle primissime vocali e consonanti emesse da un bambino, se si rimanesse lì ad ascoltarlo alcuni minuti, senza essere disturbati da null’altro, si avrebbe la percezione di ciò che hanno provato Maria e Giuseppe di fronte al Verbo incarnato che cominciava a biascicare le sue prime parole. Sembra paradossale, ma anche il Figlio di Dio, il Verbo che si fece carne, per la sua umanità, è passato per quel petèl di suoni ebraici.
È un’operazione che non ci riesce troppo facile, mettersi in ascolto di un bambino che ci sembra non stia dicendo nulla, quando in realtà il suo sforzo verso la parola cela il grande mistero della Parola.
Cosa significa, infatti, questo inesprimibile desiderio di parlare, di mettersi in relazione attraverso la parola? Perché non sono sufficienti uno sguardo o dei gesti?
Il Verbo si fece carne…
Nella vocina del piccolo di Betlemme e in quelle di ogni bambino del mondo, si cela la Parola di Dio, soprattutto si cela e allo stesso modo si manifesta la tenerezza di Dio. Non c’è nulla di più dolce e innocente di una voce bambina. Il petèl, la prima forma verbale del bambino, è il luogo della tenerezza.
I cristiani non possono limitarsi, per quanto giusto e ovvio sia, all’assunto della prima lettera ai Corinzi, cioè che «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede.» (1Cor 15,14). Questo, è un dato che si dà quasi per scontato. Ma concentrarsi troppo sulla risurrezione, così come soffermarsi troppo sulla croce, ci impedisce di sostare dinnanzi a quello che fu, prima di tutto, un bambino. Rischiamo di dimenticare che non ci sarebbe stata alcuna risurrezione, se prima non ci fosse stata l’incarnazione, nessun Gesù risorto, senza un Gesù bambino.
Bisogna sforzarsi di vedere Dio anche in un bambino, non solo nell’uomo della croce, altrimenti non ne comprenderemo mai la tenerezza.
La Natività, che celebriamo ogni anno, sembra dirci proprio questo: Dio è così. Non tanto un bambino, ma come un bambino, innocente, totalmente buono, innamorato dell’umanità, apice della tenerezza. La vera epifania del piccolo di Betlemme, ciò che Egli ha davvero da mostrare è la sua stessa tenerezza, che si manifesta e nel suo essere bambino, e nel suo balbettio. I piccoli di ogni epoca sono lì per non farci scordare quella tenerezza.
Per cui, sforziamoci davvero, non solo a Natale – ma sempre – di cogliere, in quelle voci bambine, la voce del Dio bambino.
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