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Nei capitoli 15 e 16, del libro di Isaia, troviamo la storia del popolo di Moab. Moabiti ed Ammoniti (popoli che abitano al di là del Mar Morto), sono fatti risalire, originariamente, alla discendenza di Lot (nipote di Abramo). Allontanatisi dal castigo di Sodoma, il padre, anziano, si trova, con le due figlie, in un paese straniero. Ossessionate dall’idea di non avere una discendenza nel tempo, le due ragazze approfittano del padre e lo ubriacano, così da poter giacere con lui e generare figli, riconosciuti, appunto, in Moab ed Ammon (Gen 19).
Questo popolo di Moab, tuttavia, è in difficoltà e il profeta implora che siano trattati come ospiti, che Israele possa essere per loro un rifugio, un posto sicuro, in cui dimorare “finché sia passato il pericolo” (Sal 56, 2), a patto che riconoscano il “Tempio di Gerusalemme”.
L’implorazione è piena di fiducia («nascondi i dispersi, non tradire i fuggiaschi»), ma anche ricolma della speranza che anche questo momento così spaventoso e difficile non sia l’ultima parola, che sia in arrivo una possibilità totalmente diversa («Quando sarà estinto il tiranno e finita la devastazione, scomparso il distruttore della regione, allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine, vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide, un giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia»).
In questo tempo d’Avvento, a fronte anche del richiamo all’Agnello nel versetto 1, è difficile non ricondurre quest’immagine a quella di Cristo, che, nelle parole d’Isaia è descritto come Colui che «non spezza la canna incrinata» (Is 42). Del resto, parlare di sollecitudine, nei riguardi di un giudice, riporta alla mente un’immagine che travalica la “semplice giustizia” e si ammanta di prontezza, che diventa mansuetudine, tenerezza, capacità di vedere la situazione con gli occhi dell’altro.
Riportando alla mente infelice attualità, è facile comprendere, infatti, come, di fronte alla giustizia, il fattore – tempo acquisisca un ruolo determinante. Non è lo stesso ricevere giustizia in un tempo breve oppure in un tempo lungo. Non è indifferente essere condannato ingiustamente, subire la carcerazione preventiva, salvo poi sentirsi dire “avevamo sbagliato”, dopo aver perso del tempo prezioso e non recuperabile, dopo aver visto i tuoi figli crescere senza di te, essere stato lontano da tua moglie e da tutti i tuoi affetti più cari. La garanzia della sollecitudine diventa, allora, il riconoscimento della tua vita e del tuo valore, agli occhi di Dio, che non smette mai, neppure per un momento, di vedere in te il figlio che ama, pur non mancando di vederti nell’oggettività della tua responsabilità personale. Anzi, forse, proprio in questo, risiede l’autenticità dell’amore di Dio. Vede il tuo peccato, ogni peccato, anche quello che non vedi, anche quello che vedi ma non vorresti vedere, perché fatichi ad ammetterlo con te stesso, perché – magari – manifesta quella grettezza che non vorresti riconoscere alla tua persona, di cui preferiresti non essere in grado. E, invece, lo sei. Dio lo sa. Dio conosce ognuna delle tue miserie, ma è un Signore perché non fa come Satana, che te le rinfaccia per umiliarti e convincerti d’essere indegno di Dio. Il problema non è la dignità. È vero che nessuno di noi è degno che Dio entri sotto il nostro tetto (Lc 7, 1-10): lo dice il centurione che, pagano, ci apre gli occhi sulla regalità di Cristo. Dio, che conosce il nostro cuore, sa di cosa è capace e vede quel bene che si nasconde dietro i nostri fallimenti, le nostre mancanze, il nostro amore irrimediabilmente imperfetto e sempre viziato dall’egoismo, al di là del nostro desiderio di generosità e di altruismo. Vede, insomma, quel bene che rimane desiderato ma incompiuto e gli dà fiducia. Ecco perché possiamo confidare nel suo affetto di Padre, che lo porta ad un perdono misericordioso verso ogni nostra – spesso, ricorrente – debolezza. La nostra fragilità è per Lui motivo di moltiplicazione di tenerezza, così come, per un genitore, vedere il pargolo addormentato sul divano, incapace di finire il proprio film preferito, instilla in lui il massimo della protezione (lo porta nel suo letto), facendogli mettere in secondo piano un eventuale rimprovero per non aver spento il televisore.

Il Vangelo riporta l’ingresso trionfale in Gerusalemme. L’episodio, che prende avvio da alcune precise disposizioni riguardo all’animale da prendere, in che luogo e in che modo, mettendo in luce il valore profetico di questo gesto, che risulta studiato affinché potesse essere ed interpretato, sia dai colti che dai meno esperti, tra le persone della sua epoca, prosegue però in modo non scontato.
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!»: è il grido che lo accoglie, con mantelli, che diventano un mantello, che renda morbida la strada, al Re che viene, riconoscendo, con la Sua sovranità, il Suo diritto al comando.

Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània (Mc 11, 10 – 11).

Questo congedo, così asciutto e secco, non può che spingere a percepire una sorta di “nota stonata” nel finale. Sembra subito un modo un po’ brusco per interrompere quello che – nell’intera vita di Cristo – è l’episodio di maggior glorificazione terrena e riconoscimento della sua maestà, dopo tanti che, invece, si susseguono, evidenziando il malinteso ed il continuo tentativo di trarlo in inganno, da parte di alcuni farisei e dottori della legge.
L’ora è tarda. La sera che sopraggiunge sembra quasi indicare – metaforicamente – anche lo stato d’animo di Cristo, che sa bene cosa lo attenda a Gerusalemme: quella glorificazione – misteriosamente paradossale – che richiede quell’annichilimento in Croce, che non intacca, ma, anzi, innalza la gloria del Salvatore al suo apice. Perché solo l’amore crea. E come pensarne punto più alto che non sia proprio quella croce, che diventa, quindi, al contempo, di sangue e di gloria?
Infine, la direzione che prende è oltremodo significativa. In quella sera che sopraggiunge, con il cuore in tumulto e – probabilmente – il pensiero volto alla Croce, Cristo s’indirizza a Betania. Un paesino, poco più che un villaggio, ma caro al suo cuore. Sappiamo per certo che non è l’unica volta che vi si reca. Sappiamo chi vi abita. Quei fratelli, la cui abitazione è diventata un posto da poter chiamare “casa”, dove rifocillare il corpo, nutrendo lo spirito di quell’amicizia, che scorre nell’animo, dolce come il miele, e riesce a rendere più sopportabile quei “gioghi” che la vita affonda, con vigore sulle nostre spalle, come se non costituissero una fatica.
Ci sono altri tre capitoli, nel Vangelo di Marco, prima della Passione. Ma dovrebbe darci da pensare che anche il Figlio di Dio, prima di affrontare il culmine della propria vita terrena, abbia voluto far ritorno al calore di un’amicizia, ad un momento in cui la familiarità poteva consentirgli di smettere i panni del Maestro, di non doversi guardare le spalle da “domande a trabocchetto” ed essere – semplicemente – l’Amico con cui condividere pane ed amicizia, in quella convivialità frugale che diventa congeniale aiuto per vedere nella creatura quella bellezza, che rinvia alla Bellezza primigenia del suo Creatore e spinge a quella dolce gara nello stimarsi a vicenda a cui ci incoraggia san Paolo (Rm 12, 10).   

 

Rif. letture festive ambrosiane, nella 4a domenica di avvento, Anno B:Is 16, 1 – 5; Sal 149; 1Ts 3, 11-4, 2; Mc 11, 1-11 


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini

Fonte immagine: Pikist

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