L’estratto evangelico liturgico si trova nel contesto del quinto capitolo del Vangelo di Giovanni: segue un episodio che, sicuramente, nell’economia della vicenda (e, quindi, anche: divina) di Cristo e della Sua opera di salvezza assume una rilevanza importante. All’inizio del capitolo, infatti, abbiamo il racconto della guarigione di un uomo che viveva a pochi passi dalla speranza di guarire, ma attendeva invano la collaborazione di qualche fratello; la testimonianza alla verità di quest’uomo, che attribuiva al rabbi di Galilea la propria inspiegabile guarigione, fu l’inizio della persecuzione, per Gesù, perché “faceva tali cose di sabato” (vedi Gv 5, 1-18).
È in questo punto che s’inserisce quello che è chiamato il primo discorso apologetico di Gesù, quello cioè, in cui difende il proprio operato e la propria predicazione.
Richiama l’opera del cugino, Giovanni Battista, che abbiamo visto essere un grande predicatore, forte, carismatico, incisivo, sia in parole che in opere, fino ad esserlo con la propria stessa persona. Giovanni si dimostra un segno ineludibile, che annuncia pervicacemente l’avvicinarsi del Regno di Dio, tanto atteso dagli israeliti. Così, infatti, lo definisce: «era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce» (Gv 5, 35). Riconosce in lui un grande profeta, l’ultimo dei profeti, ma anche lui, come molti altri prima di lui, è stato rifiutato ed ha subito il martirio per la coerenza delle proprie idee e la fedeltà alla propria missione.
Richiama le Scritture, che, chi lo accusa, ritiene di ben conoscere.
Difende sé stesso, ma non si difende. Non chiama altri a testimonio: è il primo indizio, che regala agli astanti che non si tratti di uno dei tanti predicatori che sono sorti a Gerusalemme, ma che il Suo ruolo, nella storia d’Israele e nella storia dell’umanità sarà qualcosa di unico e di irripetibile; non solo: di irrinunciabile. Vediamo costruirsi, con queste parole e con queste azioni, l’impalcatura dell’impianto accusatorio che, nel Triduo Pasquale, lo vedrà sottoporsi al giudizio del sinedrio, di Caifa e di Pilato.
Forse la domanda che sorge spontanea potrebbe essere: ma l’avvento non dovrebbe preparare alla venuta di Gesù Bambino?
Chi è, però, questo Bambino? Non è solo un invito alla tenerezza, a volerci tutti più bene, ad essere più buoni: è il Salvatore del mondo. E ce lo manifesta, manifestando il suo legame col Padre, nella concretezza delle azioni compiute e da compiere. Sottolinea, inoltre, innanzi alle accuse che Gli sono rivolte:
«Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato» (Gv 5, 38)
Il vero atto d’accusa, che Cristo rinvia a chi lo accusava è proprio la carenza nel loro rapporto col Padre Suo. Quasi a dire: “Leggete la Parola di Dio, e ve ne rendo merito. Ma come la leggete? Com’è possibile che leggendola, non riuscite a cogliere i riferimenti a Me?”. Come dirà in altre occasioni: «Ancora non capite?» (cfr. Mc 8,17)
Non è, del resto, la prima volta che, nel Vangelo, Gesù si soffermi ad evidenziare quanta differenza passi nel come si fa una cosa. Pensiamo, ad esempio, alla Parabola del seminatore (Lc 8, 4-15): non si tratta di ascoltare la Parola di Dio. O, meglio: quello è il prerequisito fondamentale, necessario ma non sufficiente. Tutti i casi affrontati nella parabola rappresentano persone che ascoltano la Parola di Dio. Il problema sta nel come.
Come, dunque, dobbiamo ascoltare? Ce lo spiega Giacomo, nella sua lettera, che sembra prevenire ogni nostra richiesta di chiarimento:
«[…] deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.
Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo»
(Gc 1, 21-27)
Dopo un brano evangelico che ci ha invitati a sviluppare il senso dell’udito (ascoltare la voce, di Dio, per mezzo di Giovanni) e della vista (lasciarci illuminare dalla luce di Giovanni, vedere il volto del Padre), l’Epistola dell’Apostolo delle Genti richiama, stavolta il senso dell’olfatto:
«Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita» (2Cor, 16).
Un senso, spesso, poco valorizzato, unicamente perché sottovalutato. In realtà, è importantissimo, nella nostra vita: le nostre sensazioni gustative infatti, si costruiscono in simbiosi con i recettori olfattivi, così come una delle memorie più efficaci è quella legato al senso dell’odorato. Potremo impiegare anche qualche minuto a riconoscere dove abbiamo già percepito un certo odore o profumo, ma, quasi sempre, impieghiamo pochissimi secondi a riconoscere di averne già avuta esperienza.
Dio si fa uomo. Dio si è fatto visibile, tangibile, gustabile, odorabile, oltre che udibile. Dio si rende disponibile a tutti i nostri sensi, affinché tutto il nostro essere possa ri-conoscerLo come Colui verso cui tende, da sempre, pur ignorandone il perché.
Rif. letture festive ambrosiane, nella terza domenica di Avvento, Anno B: Is 51, 1-6; 2cor 2, 14-16; Gv 5, 33-39
Fonte immagine: Pexels