La paura (t)remava contro il terzo servo. Gli tremava così contro che, una volta partito il suo padrone, decise di non giocarsi la sua percentuale di sogno a disposizione, tutto preso com’era dal digerire le sue paure. Poteva apparire ingiusto il comportamento del padrone – «A uno diede cinque talenti, a un altro due, ad un altro uno» -; per questo l’evangelista s’affretta a puntualizzare che diede «secondo la capacità di ciascuno». Ingiustizia è affidare a qualcuno più di quanto possa realmente fare, schiacciarlo di aspettative, scoraggiarlo con un’ansia-da-prestazione fuori misura. La faccenda di Cristo, invece, è onesta: “Devi ricevere cinque perché puoi cinque, devi uno perché puoi uno”. Cinque, due e uno, ai suoi occhi, hanno lo stessa quotazione. La generosità è proporzionata alla capacità, l’aspettativa è proporzionata a ciò che tu puoi: niente di meno, niente di più. Il massimo che è nelle tue facoltà. Poi Cristo, alla fine, non ha nessuna fretta di ritornare: sa bene che le persone si raccontano un poco alla volta, una paura alla volta. Per questo parte: perché, se non partisse, tutti si aspetterebbero che le cose accadano da sè, che la fortuna sorrida a tutti e non solo agli audaci, che il Cielo garantisca un assistenzialismo statale. Partendo, invece, accende la libertà dell’uomo, incentiva la sua creatività, gli dà l’occasione di mostrarsi per quello che è. Di diventare ciò che vale.
Messi con le spalle al muro, dunque, condannati ad essere liberi, ciascuno ragiona a modo suo. C’è chi sogna di vincere la partita: «Devi sapere che puoi vincere – scriveva R. Leonard -. Devi pensare che puoi vincere. Devi sentire che puoi vincere». E, per farlo, occorrerà mettere in conto il rischio anche di perderla: non c’è modo migliore di amare che rendersi conto che ogni cosa, ogni persona, può essere perduta. “Noi rischiamo – ragionano così i primi due servi -, magari perderemo, comunque sarà sempre meglio avere amato e perso piuttosto che non avere amato mai”. Il terzo servo, invece, sente di non avvertire nel cuore la voglia di vincere dei due di testa. Non sente, nemmeno, di possedere la forza di rischiare di perdere tutto che hanno i colleghi. Dunque s’accontenta di pareggiare i conti, il pareggio del bilancio è la sua aspirazione massima: «Andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone». L’Evangelo è diafano tant’è trasparente: “Va così, quaggiù tra gli uomini: chi vuole sempre vincere e chi teme di perdere. Poi ci sono quelli ai quali basterebbe un pareggio, per prendere sonno senza calmanti”. Fate bene attenzione: un pareggio a fine partita, dopo che ci hai ficcato dentro l’anima tutta, con le sue infinite sfumature, non è per nulla simile al pareggio di chi, per la paura di giocarsi la libertà, non è nemmeno sceso in campo ad allacciarsi gli scarpini. Quest’ultima razza d’omuncoli, al Dio di Gesù Cristo, arrecano prurito: per costoro la paura è come il traffico a Palermo, la coda sul grande raccordo anulare di Roma, la solita scusante a portata di mano. Una vita di riserva vorrebbero per accettare il rischio di giocare. Con Dio, poi, nessuna paura è più becera di questa: «So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra». “Sei un Dio ambiguo, incuti timore”, confessa sotto-sotto.
Ha bestemmiato? Magari fosse solo questo! Il fatto è che Gli ha detto, con parole sue, che è terrorizzato da Lui. Senz’accorgersi che anche i primi due hanno una paura matta, ma non di Dio: di perdere, rischiando di vincere. Per vincere quella paura, però, fanno entrare Dio nelle loro paure: “Se me li ha dati, Lui che mi conosce meglio di come mi conosca io, vorrà dire ch’è nelle mie possibilità giocarmeli”. E la paura tramuta in attenzione, che è il segreto di ogni vittoria: il contrario dell’attenzione è l’angoscia, che genera una distrazione assassina. Quella del terzo servo: non si accorge che, in amore, fare entrare qualcuno nelle proprie paure è molto più intimo che andarci a letto. Amore pretenzioso, però: «Servo pigro!». Tradotto: “Amico, nella vita e nell’amore non esiste pareggio. Hai perso tutto!”
Mi hanno sempre schifato quelle partitelle all’oratorio che finiscono sempre in pareggio: il nulla di fatto, il salomonico verdetto, la smanceria di non voler deludere nessuno. Questo, però, non è giocare: è uno stile così insulso da non riuscire più ad accendere la sfida. In amore, poi, Cristo ha già previsto in anticipo tutte le incognite, tranne la X. Al pareggio d’amore preferisce un tradimento riscattato: scoccia che sia così, ma è così. Le manine giunte, con la testina piegata a sinistra e le labbra che bisbigliano (col cuore spento) non valgono le lacrime di Pietro, punzecchiato dalla serva attorno a quel fuoco maledetto. Un fuoco benedetto.
(da Il Sussidiario, 14 novembre 2020)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”» (Matteo 25,14-30).
Dal 9 ottobre, in tutte le librerie, Ciò che vuoto non è (San Paolo, 2020), il nuovo libro di Marco Pozza
Il vuoto: «Mesi di vuoto dappertutto: dentro, fuori, in basso, qualcuno temeva pure lassù. Non è stato così: eppure “benvenuti alla resa finale!” hanno pensato in tanti». E se quel vuoto fosse stata una misura: “Quanto ti manco?” In una casa, l’unica stanza piena è quella vuota: è tutta colma del suo vuoto, di se stessa. E’ davvero necessario riempire ogni vuoto a tutti i costi?
In Ciò che vuoto non è l’autore ripercorre gli articoli del Credo cristiano alla luce del vuoto dei mesi di pandemia: «L’uomo ha diritto di voto, la bellezza ha diritto di vuoto per brillare» scrive. Che nome dare a quel vuoto? Per chi crede il vuoto è una mancanza piena di nostalgia, per chi non crede è pur sempre un’esperienza mistica: certe domande, comunque, hanno bisogno di vuoto attorno per respirare. Ripartiamo, dunque! Da quel sepolcro che le donne, a Gerusalemme, hanno trovato vuoto il mattino di Pasqua. E’ d’allora che quella cristiana è fede fondata sul vuoto, fede che ha diritto di vuoto.
Tra memorie paesane e sprazzi di attualità, l’autore si concede delle lezioni di lentezza per cercare una risposta alla domanda che ci interpella ovunque, soprattutto sul ciglio dell’afflizione: “Perchè credere quando attorno è buio”? Nell’emergenza il Vangelo resta uno spicchio di luna a forma di falce: la parte fulgente illumina quella oscura. Che vuota non è (dall’aletta di copertina).
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