A nessuno piace, quando arriva un ospite a casa, accoglierlo nello sgabuzzino: è sempre meglio dargli il benvenuto nel salotto, offrirgli un aperitivo nella terrazza, farlo sedere nella cucina Scavolini ch’è in bella mostra al centro. Lo sgabuzzino, lui lo sa e non s’arrabbia, nasce e si accetta perchè diventi il posteggio delle cose brutte, tutt’al più delle cose che non ti fanno fare bella figura: la scopa e il moccio, gli stracci e i detersivi, l’asse da stiro e il ferro, le maglie sporche e la biancheria intima da lavare. A metterli vicino al caminetto non farebbero certo ben figurare, ma senza una scopa il pavimento rimarrebbe sporco, senza il ferro da stiro le camicie resterebbero stropicciate, senza i detersivi i vetri rimarrebbero velati. Passi tutto questo: uno sgabuzzino è lo spazio più umile che esista, non si lamenterà mai, per quanto tu lo maltratti riempiendolo fino a togliergli il fiato. Di più: ai più che lo guarderanno con un pizzico di curiosità, mostrerà d’essere un luogo d’altissima spiritualità. La buona anima di san Luigi Orione raccontò la spiritualità dello straccio: tu lo usi e lo ributti senza dirgli manco un grazie. Poi lo riprendi ed esso, umile, ritorna a fare il suo sporco lavoro, senza pretendere un grazie o mostrare una ripicca. Puoi fargli quello che vuoi, trattarlo come vuoi, anche beffeggiarlo: lui resiste, ha la resistenza di uno sgabuzzino tanto nel monolocale di un grattacielo di periferia quanto nella reggia di una villa in collina. Puoi anche fregartene, per anni e anni, di come stia il ripostiglio: capisco che la sala da pranzo sia più amabile da vezzeggiare. Ma se un giorno, per caso, arrivasse un acquazzone e, sempre per caso ovviamente, iniziasse ad entrare acqua nello sgabuzzino di casa, saresti davvero così sprovveduto da fregartene perchè “tanto chi è che si accorge dell’acqua nello sgabuzzino?” Penso, invece, che mai come in quella situazione ti prenderesti cura di esso andandolo a riparare, asciugare: perche è da lì che tutta la casa potrebbe allagarsi. Dallo sgabuzzino (s)considerato. Puoi anche nascondere tutto lì dentro, ma l’imprevisto lo troverà. E’ come quando hai nascosto un ricordo per non sentirlo più battere nel tuo cuore: stai certo che una canzone lo troverà.
Il virus, questo stramaledetto parassita bellico, è entrato (anche) nel nostro carcere: “In altri è entrato da mesi!” dirà qualcuno. Vero: ma è quando tocca te, tocca a te, che ne avverti la pregnanza in presa-diretta. Qui dentro il virus è una ragnatela impazzita: ciò che per il ragno è normalità, per la mosca che vi incappa dentro è confusione, rischio di impiccagione. Qui, però, il virus sembra non importare granchè: “Con tutti i problemi che ci sono fuori, che stiano zitti lì dentro”. Certamente: una cattedrale profumata, un palazzo lustrato, una città antiproiettile è la logica della sala da pranzo. Va benissimo, il carcere-sgabuzzino accetta, non esiste problema: “Sono nato per fare da sgabuzzino”, si ripeterà tra sé. Ripeterà coi suoi simili quando si ritroveranno a discuterne. Quando, però, dallo sgabuzzino-carcere inizia a infiltrarsi l’acqua, ragione e logica vorrebbero che, almeno in quel caso, ci si prendesse la cura di andare a fare un sopralluogo. Di fare visita, fosse anche per opportunità se non per affetto: “Cosa me ne frega dello sgabuzzino, ma non vorrei che mi rovinasse la casa, però!” Sedici contagi sono niente per una città, per una diocesi, per una regione, per uno stato: però sedici contagi, infilati in una ragnatela ristrettissima, sono una bomba ad orologeria spaventosa. In un attimo potrebbe diventare una conta esponenziale, in quel susseguirsi costante di contatti ch’è il destino innato dello sgabuzzino. Parrebbe ovvio ragionare così: “Non me ne frega niente di quel postaccio, di chi ci vive e ci lavora, ma per interesse e tornaconto cerco di tenermelo buono”. Non è buono il governante? Almeno sia furbo! Nemmeno questo, invece: si lascia che lo sgabuzzino si riempia d’acqua fino a che, è la legge dell’urto, non farà scoppiare la porta, allagherà la casa e inizierà a bagnare i piedi di velluto della madame che se ne stava quieta in salotto ad intrattenersi con le comari: “Tanto, l’acqua è nello sgabuzzino” era il suo mantra. C’è sempre, in giro, una donna Prassede e un don Ferrante pronti a dare da mangiare al coccodrillo chiedendo, come contraccambio, di essere divorati per ultimi.
Governare è un’arte: la politica, la chiesa, la casa (ri)chiede quest’arte così affinata che non tutti la sanno declinare. Accettiamolo: siamo sgabuzzini, siamo nati per questo, lo faremo fino alla fine. Uomini-sgabuzzino, servitori-sgabuzzino, preti-sgabuzzino: useremo i nostri stracci per asciugarci e ripararci. Attenzione, però: lo sgabuzzino non ha soldi né bellezza, ma ha una memoria-da-Dio. Resteremo sgabuzzini, gente-sgabuzzino, anche dopodomani, quando andare a passeggio per lo sgabuzzino (del carcere) potrà procurare qualche foto utile all’indice di gradimento che è già al ribasso: quel giorno, non abbiate nessun timore o dubbio, continueremo ad affittarvi ancora lo spazio per il set. È la carità dello sgabuzzino: perchè, lui lo sa, che è cosa molto triste giocare a nascondino proprio nei giorni in cui ci si dovrebbe stringere in un abbraccio. Per questo, lo sgabuzzino, userà loro misericordia. Non è geloso, lui: nemmeno vendicativo. E’ un signor-sgabuzzino.