Un numero dieci, almeno per me. Forse esagero un po’: in materie celesti, il dieci lasciamolo ai santi, avete ragione. Di sicuro, come prete, non era affatto una schiappa, però: quando parla, possiede quella rarissima capacità di sorprenderti ch’è tipica dei cuori puri. Ascoltarlo non è mai come leggere una di quelle interviste – mica infrequenti nei giornali cattolici di settore – nelle quali, letta la prima riga, puoi pure saltare tutto il resto: hai già capito quale sarà il finale. Il festival dell’ovvietà. Lui, da quando ci siamo conosciuti, assomiglia ad una lepre, fotografata nella stagione della caccia: ragionando, meditando, è sempre stato capace di cambiare traiettoria di continuo. Un cuore imprevedibile, una sorta di bello-e-dannato. Nelle stagioni difficili dei nostri studi a Roma – ci avevano spediti entrambi in alpeggio, come le vacche d’estate sulle montagne a fare transumanza – ci siamo incontrati. Lui è figlio di un Sud complicatissimo, io figlio di un Nord nient’affatto semplice: la passione per i mistici ci ha fatto diventare amici. Quella gentaglia dal cuore inquieto, rotto, sfilacciato: la Valtorta, la Emmerick, Caterina da Siena sopra tutte. Gente che era sempre sul punto di saltare per aria, disposta a rimettere in gioco continuamente le piccole conquiste fatte. L’insoddisfazione fatta carne: quell’insoddisfazione, però, ch’era il loro pertugio attraverso il quale intravedere Dio.
La settimana scorsa, una sera, sono andato a trovarlo: è un periodo in cui ho solo voglia di cose normali, di cose semplici ed elementari. Umane. Ad aprirmi la porta di casa è un sosia, la versione junior del mio amico meridionale: scopro che è il suo bambino. La bambina sta arrivando in questi mesi. Subito dietro di lui, una donna di una bellezza così semplice d’apparirmi amica, pur non conoscendola affatto. I lineamenti sono quelli della gente veneta, della prima collina: «Entra, adesso arriva Tommaso (nome di fantasia). Ha solo un attimo di ritardo» mi accoglie con una dolcezza materna. Nell’attesa prepara un caffè: «Passa a bere un caffè, dai: non essere il solito selvatico, non sarò mica un lebbroso anche per te!» mi aveva scritto quest’estate, dopo esserci (re)incontrati attraverso lo schermo della tv. Sono passato, io che sono sempre uomo di inviti-declinati: il caffè è sempre una scusa più che una tazzina. L’escamotage per parlarsi, incontrarsi, dirsi quant’è bello ritrovarsi uomini, uomini anche diversi. Per questo è difficile trovarsi a bere certi caffè! La sua faccia, dopo sette anni che non ci vedevamo di persona, è rimasta la stessa. Non è la stessa, però: stavolta è accesa, colorata, finalmente umana. Il baccano del suo cuore lo conosco tutto, la sua sofferenza non mi è mai stata indifferente, la sua onestà in materia me l’ha fatto diventare compagno di viaggio nella mia personale ricerca della felicità. Ricerca di Dio. «Non era più vita la mia – mi racconta con una serenità invidiabile – Con la testa che mi ritrovo, e tu mi conosci come sono (che testa!, ndr), avrei potuto continuare per anni a tener duro, anche fino alla fine: la parrocchia, l’insegnamento, lo studio, i sacramenti». Una smisurata passione per il meditare sui misteri di Dio, sui casini dell’uomo, sui subbugli della storia. Poi, ad un certo punto, la rabbia che inizia a far capolino: «Noi due (sorride guardandomi) abbiamo sempre cercato il vento in faccia, d’andare contro il senso comune, d’essere noi stessi, costi quel che costi. A un certo punto, però, la rabbia ha iniziato a diventare dolore dentro di me. E’ stato quando ho conosciuto lei – mi indica Giuditta (nome di fantasia) -. i suoi occhi sono stati l‘agguato di Dio su di me». Sorride, sgranando gli occhi, e facendomi notare che ha volutamente rubato il titolo di un mio libro. E’ strafottente, ci piacciamo perchè siamo così noi due. Più di due: siamo un ristrettissimo gruppo di cuori amici. «Non ho lasciato tutto per lei, tu lo sai bene qual’è la differenza in coscienza. Non sono uno che fa le cose a caso – mi dice -. Per anni mi sono tormentato dentro, ci ho riprovato, ho ricominciato da zero. Lei, ad un certo punto, è stata la forza che ha dato un significato a questa mia inenarrabile fatica nel rileggere tutta la mia storia, con onestà. Anche lei ha la sua storia dietro». Come tutti noi. Lo conosco troppo bene: Tommaso non è uno di quelli che lascerebbe il certo per l’incerto se solo non avesse il fiuto di sentire che nell’incerto Dio gli ha nascosto quel di-più che farà la differenza. Mi sta parlando con gli occhi, lui che nelle parole aveva un’arma micidiale. Per far miracoli, per fare anche casini.
Poi, dopo anni inquieti, «il cuore mi ha messo al muro: è come se dentro di me, per anni, la volontà avesse spinto a dismisura ma il cuore si fosse staccato, fosse rimasto pesantemente indietro» mi dice come se stesse dicendo la cosa più naturale. E’ la cosa più naturale per lui, adesso. Sorrido, ci capiamo al volo: la volontà, senza il cuore, prende la castità e la rende castrazione; umilia la povertà rendendola miseria, fa dell’obbedienza la versione più schifosa del servilismo. Una non vita! Questa differenza è materia di condivisione tra di noi da anni. «Non giudico nessuno dei nostri superiori, il tempo della rabbia è finito anni fa. Quand’è arrivata lei, ti ripeto, ho sentito che la rabbia stava iniziando a trasformarsi in dolore. E mi sono ricordato di cosa mi aveva detto il mio vescovo (sottolinea l’aggettivo, toccandosi il cuore): “Tommaso, un giorno la rabbia diventerà dolore. Quello sarà il giorno giusto per essere sincero con te stesso: quel giorno la scelta che il cuore ti dirà di fare sarà quella che vorrà anche Dio. Presta attenzione ai piccoli dettagli di ciò che ti accadrà nel frattempo». Che vescovo, porca miseria, l’avamposto ultimo della misericordia, della gentilezza. «Quando gli ho detto che non sarei più stato prete, sai cosa mi ha detto?» Io, prevenuto, già rigurgitavo al pensiero dei soliti ragionamenti riscaldati dei vescovi-da-laboratorio. «Non è un passo indietro il tuo, Tommaso. E’ un salto in avanti, non piccolo: serve tanta onestà per farlo, non tutti sentono magari di avercela. C’è anche chi sceglie di vivere con le stampelle: tu non sei uno così, ricordalo. Poi mi ha abbracciato fortissimo: “Promettimi che io ti potrò ancora chiamare ogni volta che vorrò. Non buttarmi mai giù il telefono quando vedrai il mio nome, ci starei tanto male». Aveva gli occhi lucidi, avevano tutti e tre gli occhi lucidi. Il bambino, in mezzo, si eclissava tra loro due. Un’unica amarezza: quel vescovo non era il vescovo della sua diocesi, ma un vescovo-papà che gli aveva aperto le porte di casa quando lui, disperato e randagio, aveva bussato alla sua porta. «Ti rendi conto di che cosa mi ha detto quando sono andato da lui quell’ultima volta da prete?» mi dice ripensandoci ancora una volta, come fosse la prima. Un vescovo-padre che parla così a suo figlio, nel mentre il figlio sta ricalcolando, con sudore e onestà, il percorso della sua vita. «Io questo vescovo lo amo – è la prima volta che parla Giuditta, si tocca la pancia – Sai, invece, che cosa ha detto a me un giorno che è venuto qui a casa nostra per farci una sorpresa?» Taccio, la guardo, sento d’avere gli occhi umidi: «Non sapevo fossi tu la sua lei, ma ho imparato a conoscerti mentre si riaccendeva la luce dentro Tommaso. Oggi vedo che faccia ha la felicità di Tommaso. La vostra: siate orgogliosi della vostra storia, non è stata scontata. Io ho solo aperto la porta di casa a tuo marito quando era sotto un treno: è diventato un figlio per me. Lo rifarei: ho risvegliato in lui l’uomo che si era addormentato per il troppo senso del dovere di ciò che faceva». Il senso del dovere, del lavoro, degli impegni: è lui, Tommaso. Gli occhi di lei, mentre racconta, sono uno dei più bei libri di teologia che abbia letto nei miei ultimi quarant’anni. Mi sono alzato, mi sono inginocchiato di fronte a loro due: «Benedicimi, Tommaso». L’ha fatto, in pace. Che pace dentro quella casa.
Domenica scorsa, colpendo il mondo a sorpresa come fanno le lepri coi cacciatori, esattamente quel vescovo Papa Francesco ha annunciato che lo creerà cardinale, cardinale di Santa Romana Chiesa. Siamo giunti, finalmente, nell’epoca in cui non si diventa più cardinali in automatico, perchè titolari di sedi cardinalizie, ma perchè uomini. Oppure no. Una delle prime telefonate questo vescovo l’ha fatta a Tommaso e Giuditta, appena dopo l’Angelus, all’ora di pranzo: «Adesso sono io che ho bisogno di voi: non lasciatemi mai da solo, ragazzi. Per il battesimo della bambina, non preoccupatevi. E’ già in agenda: sono o non sono il suo nonno!?» Anche questa è Chiesa, ciò che vuoto non è.