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La parabola del seminatore, la prima che incontriamo nel vangelo di Matteo, è la parabola delle parabole, la matrice di tutte le parabole: non a caso, infatti, è l’unica di cui abbiamo diretta spiegazione del Maestro.
Curioso è innanzitutto notare come questa nasca. Nasce perché i discepoli Gli chiedono come mai parli in parabole alla folla. Ma perché lo chiedono? Perché, in realtà, essi stessi sono i primi a non aver pienamente compreso.
La parabola è volta a spiegare il Regno di Dio, tuttavia, si rivela uno scrigno prezioso anche per gettare uno sguardo sul mistero del cuore stesso di Dio.

«Il seminatore uscì a seminare»

Innanzitutto, se il seminatore è Dio stesso, che dispensa la propria Parola, la prima osservazione a cui possiamo pensare è che Lui è il primo a prendere l’iniziativa. Non aspetta che noi lo cerchiamo. Esce. Si impegna in prima persona. Va. Fa. Agisce, senza por tempo in mezzo.
Una riflessione che potrebbe venire è: perché non fa prima una ricerca, non si affida a una task force di esperti (come va di moda oggi), magari di geologi, per sondare prima quale sia il terreno migliore e rivolgere solo ed esclusivamente verso di esso i propri sforzi? Una corrispondente prodigalità è mostrata nella moltiplicazione dei pani: da cinque pani e due pesci, frutto della generosità del singolo, mangeranno più di 5000 persone, avanzandone 12 ceste, raccolte dai discepoli (Mt 14, 13-21).
La generosità è – in realtà – un attributo che Dio mostra già nell’Antico Testamento. Un esempio su tutti. Sara utilizzerà tre misure di farina (cfr. Genesi 18, 1-15), ai misteriosi tre visitatori che Abramo riceverà alle querce di Mamre, ricevendo in cambio un “dono dell’ospitalità” altrettanto sovrabbondante: un figlio, donato a due coniugi ormai così avanti negli anni che Sara si mette a ridere (Isacco è il figlio di una risata e Sara la donna che ha avuto il coraggio di ridere, di fronte a Dio).
Un ulteriore esempio che possiamo trovare nel Vangelo è l’unzione di Betania: i 300 denari di profumo che Maria romperà per rendere onore a Cristo, stridono con i 30 denari che saranno sufficienti a Giuda per tradirLo. Gesù ripagherà un simile onore con il Suo sacrificio sulla Croce: unico Giusto, condensa in sé il peccato di tutti gli uomini, passati, presenti e futuri, affinché Dio possa usare a tutti misericordia. Più prodigo di così!

Il secondo aspetto da prendere in considerazione è poi il terreno, che siamo noi, e possiamo accoglierla con entusiasmo, essere soffocati da problemi e preoccupazioni, oppure portare più o meno o frutto, in base alla nostra disponibilità.
La generosità di Dio è assoluta, la sua disponibilità integrale, la sua fiducia nei miei riguardi qualcosa di inverosimile e persino difficile da credere ed interiorizzare.
A questo punto, però, la palla passa a me. Come ascolto?
San Giacomo, infatti mette in guardia:

«Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1, 22 – 25)

La prima immagine è quella di un furto: la parola arriva, ma incontra un terreno ostile. Gli uccelli lo mangiano, impedendoci di conformarci a Lei. La strada è un terreno duro, impenetrabile: qualcosa si frappone alla Parola. Può essere una ferita non rimarginata, un lutto, un affetto scomposto, un’idea sbagliata di Dio. Qualunque cosa si sia, non permette alla Parola di portare frutto.

La seconda immagine ci mostra il terreno sassoso: le pietre non consentono alla parola di arrivare in profondità. Qualcosa ci arriva, qualcosa smuove, magari a livello emotivo: inizialmente, parte l’entusiasmo alle stelle, magari siamo così presi che iniziamo a fare mille propositi, che, però, ben presto si sciolgono come neve al sole: la Parola non si è radicata in modo compiuto ed effettivo, a non è diventare rilevante nella nostra vita, è rimasta qualcosa di astratto, una parentesi di “pace”, in una vita che rimane, per il resto, del tutto indipendente.

Abbiamo poi le spine, che soffocano il seme: sono le preoccupazioni che ci allontanano dalla Parola. È un attivismo, che può anche essere velato di sacro, ma che lascia trasparire un fraintendimento nella sua modalità e nel rapporto che noi instauriamo con la realtà: è un fare che non è riempito d’essere e rischia – quindi – di diventare. Che vuol dire? Madre Teresa non usciva per le strade di Calcutta, senza prima aver pregato in profonda adorazione davanti al Santissimo, perché «senza Dio, siamo troppo poveri, per poter aiutare i poveri».  

Il terreno buono è, infine, chi decide di lasciarsi mettere sul serio in discussione, in profondità, da ciò che ascolta. “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 83, 6): inutile dire che, spesso, il più impegnativo dei viaggi è quello che passa per noi stessi. È accettare di guardare a noi stessi, con gratitudine, per quel che siamo ed abbiamo e, in quello, possiamo diventare “terreno buono”, a servizio di Dio e di chi ci vive accanto.

Dio è prodigo, nei nostri riguardi, perché, da sempre, è convinto che noi siamo un prodigio (cfr. Sal 138): ma noi ne siamo convinti?

 

Rif. Vangelo festivo ambrosiano, nella VII Domenica dopo il Martirio di san Giovanni Battista (Mt 13, 3 – 23)


 Fonte: Zenit

Fonte immagine: parrocchiemarrubiu

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