Tefillin, filatteri per ricordare l'amore di Dio

“Parla pure, ti ascolto” dice il papà, mentre compila il modulo dell’autocertificazione. “Dimmi pure, tesoro” rassicura la mamma, mentre asciuga i piatti, che ha appena lavato. “Ascoltami con gli occhi!” protesta il figlio, a cui non basta un’attenzione parcellizzata.
Noi donne ci vantiamo delle nostre capacità multitasking che, talvolta, diventano assolutamente necessarie. Ma, molte altre, ci ottengono solo di perdere la parte migliore.
«Ascolta, Israele!» è il monito di Dio, che sa che, quando si ascolta, è necessario farlo in modo integrale. E, per ascoltare, è necessario fare silenzio: perché, se siamo pieni di altre cose, come può la Parola di Dio trovare il proprio spazio?
«Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore». Il brano fa riferimento ad un «pendaglio tra gli occhi», a parole da ripetere ogni giorno, per sé e per i propri figli. È il senso della Tradizione. Se Dio vuole ricordarsi di noi, tanto da scriversi il nostro nome sul palmo della mano (Is 49, 16), noi, invece, cosa facciamo per ricordarci di Lui? La nostra anima è incarnata, non siamo angeli. La nostra fede ha bisogno di concretezza. Non sono casuali le indicazioni che troviamo in Deuteronomio. Scrivere, ripetere, legare: appartengono tutte al campo semantico della memoria. Anche noi siamo chiamati a fare memoria, quotidianamente, di chi siamo noi e di chi sia Dio, per noi.
La parola, il silenzio, il corpo, l’abbigliamento, l’atteggiamento: tutto in noi è comunicazione. Alle volte, ci è necessario anche comunicare con noi stessi, per ricordarci qualcosa. Può essere una croce, un rosario, una spilla, una frase sull’agenda, un bigliettino in una tasca, un anello, un braccialetto. Sarebbe bello aver sempre con noi qualcosa che ci ricordi che noi siamo per Dio e Dio è per noi!

«Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà fatto entrare nella terra che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti, con città grandi e belle che tu non hai edificato, case piene di ogni bene che tu non hai riempito, cisterne scavate ma non da te, vigne e oliveti che tu non hai piantato, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guàrdati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Deut 6, 10-12)

L’esercizio del ricordo ci aiuta ad esercitare la gratitudine. Spesso, plasmati più dalla cultura in cui siamo immersi che dalla Parola di Dio, ci illudiamo che tutto dipenda da noi, dalla nostra forza, dalla nostra volontà, dalla nostra abilità, dalla nostra bravura. Poi, arrivano i rovesci della vita. Quei momenti, non per forza drammatici, ma durante i quali, in ogni caso, facciamo esperienza della nostra finitezza, dei nostri limiti, dei nostri confini. Fin da quando siamo piccoli, agiamo e ci muoviamo seguendo l’intento di divenire intenti ed autonomi. Con l’adolescenza, interpretiamo la libertà come la possibilità di entrare e uscire di casa quando lo desideriamo, senz’avere limiti imposti dai genitori. Prima o poi, nella vita, arriva il momento in cui ce ne accorgiamo: non tutto dipende da noi. Non tutto è nelle nostre mani. Non dev’essere per forza una tragedia di proporzioni esagerate. Basta anche solo slogarsi il polso “forte”, a cui ci affidiamo di più: improvvisamente, tutto ciò che era semplice e davamo per scontato, diventa un’impresa titanica, dall’allacciarci le scarpe al fare una firma. Tutto è complesso, complicato, enormemente più lungo e macchinoso di come fosse stato prima. Siamo così assuefatti all’idea che tutto ciò che abbiamo è una nostra conquista, che facciamo fatica a credere che Dio ci cerchi non perché ci voglia incastrare, ma per donarci qualcosa. Perché? Perché sì. Perché sei mio figlio e ti amo. Serve altro? A noi non basta mai: la nostra mente si arrovella a cercare spiegazioni, o – meglio – individuare dove risieda la fregatura. Perché, spesso, il nostro animo inquieto è abitato dal germe del sospetto. Anche nei riguardi di Dio.

Lo stesso san Paolo ritorna sull’argomento, con un incipit che sembra tautologico, che ci pare quasi insensato: «Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5, 1). Cristo ci ha liberati per la libertà! Di primo impatto, probabilmente, questa frase ci lascia senza parole. In realtà, risponde alla domanda: “Ma Cristo ci ha liberati per…?”. Qual è il fine della liberazione, portata da Cristo? Che noi lo serviamo, che gli siamo utili? Può essere, questo, l’interesse di Dio? Cambia – davvero – qualcosa a Dio, se Dio è perfetto?
Dio desidera che noi ci accorgiamo di aver bisogno di Lui, perché solo in Lui noi possiamo esprimere pienamente la nostra libertà, che non trova, invece, compimento, in un’autonomia che rimane – sempre – illusoria.
Le parole di Paolo si alzano a gran voce, all’interno della compagine dei primi cristiani, sottolineando come non fosse più necessaria la circoncisione, pratica che, invece, i cristiani provenienti dall’ambiente giudaico pretendevano di estendere ai cristiani provenienti dal paganesimo. Paolo stesso è di origine ebraica; non solo, ha studiato presso uno dei rabbini più importanti, del suo tempo. Perché dunque ci tiene a non perpetuare questa tradizione, tramandata di padre in figlio dai tempi di Abramo, quale segno dell’alleanza tra l’uomo e Dio? Perché, nella Croce di Cristo, quel gesto rituale impallidisce. Così come di fronte al sacrificio del Figlio dell’Uomo che, liberamente, s’offre per noi, impallidiscono tutti gli antichi rituali di sacrificio d’animali, allo stesso modo, ogni altro rito diventa ormai solo una sterile eredità del passato, che non ha più senso d’esistere. Anzi: rischia, con la sua esistenza, di mettere in discussione la validità e la novità di Cristo. Ecco perché Paolo insiste su questo aspetto, invece di assumere un atteggiamento più accomodante, nei riguardi dei suoi ex correligionari, come lui convertitisi al cristianesimo.

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”» (Mt 22, 36-39)

Così, il Signore Gesù, alla richiesta farisaica, riassume l’elenco dei comandamenti, che molti di noi hanno imparato a memoria e ha – spesso – costituito principalmente un monito morale. Il primo in assoluto ricorda la priorità da dare a Dio: sembra un obbligo, ma si tratta di un consiglio; solo se mettiamo, concretamente e nella nostra quotidianità, Dio al posto che Gli spetta, anche tutto il resto trova il proprio posto. Se facciamo l’inverso, spesso otteniamo solo pasticci.
Tuttavia, non basta la priorità. Il nostro rapporto con Dio richiede l’integralità. Come asserito rispetto all’ascolto, non possiamo dare a Dio scampoli o ritagli. Dio non chiede molto: chiede tutto. Ma la bella notizia è che qualunque sia il tuo tutto, a Lui, quello, basta sempre!
Quando si parla di amare il prossimo come se stessi, bisogna sempre stare attenti alla considerazione di sé stessi. A qualcuno è necessario specificare: “mi raccomando, non meno!”. A qualcun altro, invece, bisognerà ricordare: “mi raccomando: non di più!”. Dio non fa figli e figliastri: ma l’amore oblativo non può mai tradursi nell’avversione a sé stessi. Perché quando diciamo che siamo tutti suoi figli, siamo tenuti ad includere anche noi stessi: ciò significa non solo non mettersi su un piedistallo, ma ricordarsi che anche noi siamo preziosi, come i poveri, gli ultimi, i diseredati. Che anche noi siamo oggetto del suo amore, anche se siamo ricchi e abbienti, perché nessun uomo può salvarsi da solo, così come (parafrasando una famosa frase di Churchill) nessun uomo in piedi in un secchio può pensare di sollevarsi, tirando il secchio per il manico.

Rif. letture festive ambrosiane, nella V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore


Fonte immagine: Agudasachimic

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