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Ad Emmaus il sole s’è appisolato qualche ora fa. L’oste sta sparecchiando, con la ramazza pulisce sotto i tavoli, risciacqua le tovaglie sporcate di vino. Già che c’è, prepara il necessario per la colazione: all’alba qualcuno sarà già per strada. “Che strani tipi quei due – ripensa tra sè -. Prenotano per dormire, poi all’ultimo disdicono e si rimettono in viaggio”. Fuori è buio pesto: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (Lc 24,33) Educatissimi, per carità: il tavolo al quale erano seduti l’hanno lasciato pulito.
“Anche le briciole di pane si sono portati via!”: l’aiutante s’è accorta.
L’oste, sornione, chiude i conti.
E’ un deserto, Emmaus, Antoine. Uscito dall’osteria, la ri-guardo da fuori e mi sovviene alla memoria una lettera, scritta a tua madre, nella quale le racconti com’è fatto il tuo fortino nel deserto: «L’altra facciata dà sul deserto – le scrivi -. L’interno è spartano. Un letto cioè una tavola con pagliericcio, un catino, una brocca per l’acqua. Dimenticavo gli accessori: una macchina per scrivere e i moduli dell’aerostazione. Proprio come la cella di un monastero (…) Ogni giorno regalo del cioccolato a una nidiata di piccoli arabi, maliziosi e incantevoli. Sono diventato una celebrità fra i bambini del deserto. Ci sono stupende fanciulle che hanno già l’aria di principesse indù e mostrano atteggiamenti materni. Siamo ormai vecchi amici. Il marabutto viene tutti i giorni a darmi lezioni di arabo. Sto imparando anche a scriverlo: me la cavo già abbastanza bene. Il pomeriggio invito i capi mauri a prendere il tè. Essi ricambiano, invitandomi ad assaggiare il loro tè nelle loro tende a due km di distanza dal forte, in mezzo al territorio dei ribelli dove nessun spagnolo è ancora stato. Ma io andrò ancora più lontano e senza rischiare nulla perchè ormai i capi mauri mi conoscono bene. Disteso sul tappeto osservo, attraverso un lembo della tela, la sabbia calma, punteggiata di dune, il terreno ingobbito, i figli dello sceicco che giocano al sole, il cammello legato alla tenda. Ho una strana sensazione: non di distacco, non di isolamento, ma come di un gioco che passa».
Un catino e una brocca per l’acqua: sono utensili a me familiari, amico.
Fuori dall’osteria solo stelle, silenzio, pianeti. Asteroidi. Seguo una scia: un aereo è decollato dall’aeroporto di Tel-Aviv, dedicato a Ben Gurion, padre della patria. Osservo quell’aereo e ripenso a te, Antoine: niente riuscì mai a fermare la tua passione per i voli. Mi sembra di rivederti in fotografia, quella che tengo sulla mia scrivania, sotto la lampada: hai indossato il tuo casco, sei pronto a partire. I dati sono diventati storia: Lockheed P38 Lightning, Grenoble – 31 luglio 1944. La smorfia, dentro l’abitacolo, è rimasta quella del bambino feroce che sei sempre stato. Sul corpo, nel viso, ci son tracce di incidenti fatti: quella volta che ti scordasti di far uscire uno dei carrelli e danneggiasti il velivolo, la depressione che ti prese quando ti confinarono nelle riserve. Le missioni di ricognizione a mò di consolazione: te ne accordarono cinque, le avevi già doppiate. Riconosco tutto di te: la spalla anchilosata, la testa ripiegata, gli occhi socchiusi. Sei tu!
Dai prati di Emmaus, inseguo il tuo volo finchè ci riesco. Poi mi scompari dai radar, come sei scomparso da quelli dell’aeroporto in un giorno di fine luglio. Dicono che ti abbiano abbattuto, che abbiano recuperato i resti del tuo rottame a più di sessanta metri di profondità, nel mare davanti a Marsiglia. Dicono che il tuo corpo non sia mai stato ritrovato: ne dicono tante, quaggiù.
Di te, di me, del tuo caid, del nostro Dio.
Manco il suo corpo è stato più ritrovato: si è alzato in volo sopra Betania e non l’hanno più rivisto. Lo vedono dappertutto, però, come quando una persona ti manca e tu la vedi ovunque: sono deliri di onnipresenza.
Sono la versione aggiornata degli innamoramenti.
Adesso chissà in quale asteroide sarai andato a conficcarti.
Qui, stasera, non c’è più nessuno a farmi compagnia: solo un leggerissimo profumo di pane appena sfornato m’intontisce i sensi. M’inebria l’anima. E’ pane fresco, pane-promemoria: il pane degli angeli. Qualcuno me l’ha messo in mano perchè non patisca la fame: si è messo nelle mie mani per non star più da solo.
Un po’ come il tuo inseparabile amico Francois, morto a quindici anni, che ti aveva nominato suo «esecutore testamentario». Vent’anni dopo la sua morte, anche tu hai fatto il pane con le parole: «Se fosse stato un costruttore di torri, mi avrebbe chiesto di realizzare la sua torre. Fosse stato padre mi avrebbe affidato l’istruzione dei suoi figli. Se fosse stato pilota di guerra mi avrebbe affidato il suo giornale di bordo. Ma era solo un bambino e mi ha lasciato un motore a vapore, una bicicletta e una carabina».

A me, invece, l’Amico mi ha lasciato del pane.

Prima di mangiarlo faccio il segno della croce, com’è usanza a casa mia, è anche buona creanza: è gesto di grazie, buon appetito. Una stella cadente mi si annuncia davanti: un brindisi al chiarore delle stelle. Al chiaro di luna. Forse l’hai toccata tu, distratto come sei, col tuo aeroplano pazzo: l’hai fatta cadere giusto dall’altra parte della strada, in fronte a me. Cadendo ha fatto rumore, pareva un rumore di conchiglie gettate sulla scogliera di un mare taciturno.
Voci di madri in partenza, che sono parole di testamento:

«Signore, vengo a te poichè ho arato in tuo nome. A te la semina
Io ho costruito questo cero. Tocca a te accenderlo.
Io ho costruito questo tempio. Tocca a te abitare il suo silenzio».

Avverto i brividi sulla pelle, Antoine.
Sono in debito: ti devo un passaggio per il Cielo.

(da M. Pozza, Il balzo maldestro, San Paolo 2020)

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(Marco Pozza, Il balzo maldestro, San Paolo 2020)
Quella cristiana è la storia del riscatto da un sequestro: Satana sequestra l’uomo, Dio paga di persona per liberarlo. È una storia che si intreccia con l’autobiografia dell’autore, scandita da un’originale rilettura dei complementi di luogo imparati alla scuola elementare. Dal giardino dell’Eden alla gattabuia del Demonio, andata e ritorno, è l’indicazione dell’eterno viaggio della speranza. Poiché tutto può il demonio, ma non cancellare dal cuore la nostalgia di Dio. Nulla hanno ancora potuto stragi, graticole, ripicche: la sua memoria è dappertutto. Basterà poco, il bisbiglìo di un Mistero, per risvegliare nell’uomo il sapore del Cielo. Accadrà come per le anatre domestiche, al tempo delle migrazioni: attratte dal grande volo triangolare delle anatre selvatiche di passaggio, esse «abbozzano un balzo maldestro», disprezzando per un istante il pollaio. Seguendo questa intuizione, suggerita da quello straordinario maestro della narrazione che è Antoine de Saint-Exupéry, Marco Pozza, in questo suo nuovo libro ricchissimo di suggestioni, ci racconta una storia che parla di anatre, di gazzelle e di deserti. Di un sequestro e del suo riscatto. Di una Cittadella da (ri)costruire, oggi più che mai, nel cuore dell’uomo.

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