Samuele (“Dio ascolta”), il ragazzo di cui si parla nella Prima Lettura, è figlio di Anna, una donna sterile ma ricca di fede. Pregando ottiene un figlio. Ella ha formulato un voto al Signore: “Se avrò un figlio, lo restituirò al Signore, come primogenito, facendolo servire presso il santuario di Silo, dov’è l’arca del Signore” (1Sam 1-2).
Nel brano liturgico, lo vediamo, sollecito e confuso, di fronte alla voce di Dio che lo chiama. Fin da giovinetto, frequenta il tempio, in quanto al servizio del sacerdote Eli, ma «non conosceva il Signore». In questo caso, il verbo “conoscere” è usato nel significato più profondo del termine, come nell’unione sponsale tra uomo e donna. Quindi: non è che non avesse mai sentito parlare di Dio, ma non era in grado di comprendere come comportarsi di fronte alla Parola, anche perché, come è sottolineato, «La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti». In sintesi: non c’era familiarità con Dio.
Lo stesso Eli, pur essendo un buon uomo, non era stato in grado di manifestare pienamente la propria paternità, riflesso di quella divina: i suoi figli si sono allontanati dalla volontà di Dio, trasgredendo alla Legge e Dio ne terrà conto.
Samuele, dunque, al sentirsi chiamato, fraintende: riconduce la voce all’unica che è abituato a sentire e, con pronta sollecitudine, per due volte si alza e va a domandare ad Eli se lo abbia chiamato. Alla seconda volta, Eli comincia a comprendere ed istruisce il ragazzo sulla risposta da dare. Finalmente, Samuele è pronto ad accogliere il terzo richiamo e ad ascoltare la voce di Dio. Quanto ascolta non è piacevole e Samuele, che vuole bene ad Eli, vorrebbe evitargli un dispiacere, ma è lo stesso sacerdote a sollecitarlo. La dinastia di Eli non può essere riscattata coi sacrifici: Eli dovrebbe riportare i suoi figli a Dio, non limitarsi a pensare alla propria fedeltà. Questo è un monito sulla responsabilità dei padri nei confronti dei figli e di ciascuno di noi nei riguardi del fratello. Non possiamo rispondere, come Caino: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Perché è una domanda di cui già conosciamo la risposta. Sì, lo siamo!
Siamo gli uni accanto agli altri proprio per custodirci e proteggerci, spronandoci vicendevolmente, in un cammino che ci porti alla santità. Le opere di misericordia spirituale (tra cui consigliare i dubbiosi) sono parte integrante di quanto Dio ci chiede di fare, durante la nostra vita. È un atto di amore, di cura, di attenzione: dedicare del tempo, rispondere ad una domanda, condividere la conoscenza è altrettanto caritatevole che fornire un pezzo di pane. Perché “non di solo pane vive l’uomo”: c’è un anelito all’infinito che continua a soffiare in ciascuno di noi, anche quando proviamo ad ignorarlo e disinteressarcene. Il peccato non porta mai alla felicità, ma toglie libertà: ecco perché la correzione fraterna guarda al vero bene di chi ci sta accanto, cioè fargli ritrovare la libertà autentica del suo sviluppo umano.
Nel Vangelo, incontriamo, invece, due coppie di fratelli. Tutti e quattro, come spesso accadeva all’epoca e come è accaduto a lungo nella storia, pescatori, come il loro padre e come i loro avi, perché il mestiere (così come gli attrezzi e gli investimenti che lo riguardavano) passavano abitualmente di padre in figlio, per generazioni.
Due coppie di fratelli, un unico lago, su cui spendevano il proprio tempo e la propria fatica, ogni notte, in cerca di quel pesce, che diventava il sostentamento, per sé e per la propria famiglia.
E un’unica sorte, che li accomuna in un’identica risposta.
Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Ciò che colpisce è senz’altro quel subito. Avevano già sentito parlare di Gesù? Si era già fatto, in qualche modo, notare, in quel lembo di Galilea?
Siamo al capitolo 4 del Vangelo di Matteo, ai primordi assoluti della predicazione: nonostante ci sia già stato il Battesimo nel fiume Giordano e la predicazione del Battista, ben poco si sapeva di quel Nazareno. In ogni caso, anche qualora qualcosa fosse già trapelato, non è comunque sufficiente ad evitare di lasciarsi interrogare da quell’immediatezza. Parliamo di due coppie di pescatori, la cui vita si è sempre svolta intorno a quel lago, che forniva loro (quando lo forniva) il necessario per sopravvivere, a prezzo della fatica di una notte passata nell’incertezza, con l’aspettativa di dover poi, in ogni caso, al sorgere delle sole, al di là del risultato, pensare alla manutenzione della barca ed alla pulizia delle reti, per garantire l’efficienza della propria attrezzatura. Non erano filosofi, né rabbini, né uomini di cultura. Eppure, qualcosa, nello sguardo di quell’uomo deve avere incontrato l’inquietudine del loro ed avere acceso in loro il desiderio di andare più a fondo. A costo di lasciare padre, barca, attività avviata, una vita magari monotona ma che prometteva almeno il necessario di cui poter dignitosamente vivere.
Nell’epistola, San Paolo riconosce l’indegnità della propria elezione, che, scevra d’ogni merito, può essere ascritta unicamente alla suprema misericordia di Dio.
Quattro pescatori, un ex-persecutore di cristiani e un bambino che non avrebbe dovuto nascere. Storie diverse, unite da un punto in comune: nessun uomo è figlio del caso. Siamo tutti scelti, chiamati ed amati, per portare l’amore di Dio nel mondo. Chiamati, anzitutto, alla vita.
Contro ogni speranza, contro ogni certezza, contro ogni pregiudizio. C’è vita, per tutti.
Chiamati, poi, a grandi cose, ciascuno secondo un personale progetto, pensato da Dio dall’eternità.
Basti pensare alla storia di Samuele. Una donna nel dolore, annegata nella solitudine e nella tristezza di sentirsi svuotata come donna, quasi amputata nel suo essere donna, per non essere riuscita a generare un figlio. Al colmo della disperazione, riesce a pregare nel modo più generoso che l’essere umano possa mai conoscere: “Dio donami un figlio, affinché io possa donarTelo!”. Avere, per non avere. Ricevere, per restituire. Quanto dobbiamo imparare da questa donna, sia nella preghiera, che in quello stile di gratitudine che, se permea la nostra vita, ci rende più liberi e più capaci di gioire.
Dopo anni di solitudine, di tristezza, di angoscia, probabilmente anche di scherni e di disprezzo subito, la sua accorata preghiera riesce a diventare un’offerta. Di più. Una volta ricevuto quanto chiesto, non ritratta, non torna sui propri passi. Mantiene fedeltà a Dio, che si è mostrato fedele. Fin da piccolo, Samuele inizia, infatti a dimorare presso il tempio, come promesso in quel giorno di angoscia, dolore e preghiera.
E Dio, alla vista di quella generosità, ricambia in modo altrettanto generoso. Così che quel figlio, impossibile per molti, chimera per tanti, speranza per Anna, segnerà indelebilmente il corso della storia del popolo d’Israele. Sarà profeta, ungerà Davide e sarà ricordato, con lui, come uno tra i personaggi più importanti per il popolo eletto.
Quasi a dire: se stai pensando di arrenderti, aspetta ancora un attimo. Forse, Dio sta preparando, per te, il più formidabile dei riscatti dagli stigmi che il mondo ti ha inflitto!
Rif. Letture festive ambrosiane, nell’VIII Domenica dopo la Pentecoste (Sam 3, 1-20; Ef 3, 1-12; Mt 4, 18-22)
Fonte: Don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
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