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Mosè, l’audace. Colui che osò sfidare l’Eterno. Colui che, aprendoGli il cuore, Gli svelò il più profondo desiderio dell’uomo. Quello che, il più delle volte, rimane nascosto tra le pieghe del suo intimo, ignoto persino a se stesso.

«Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18)

Non è la prima volta che Mosè dialoga con Dio. È stato chiamato da Dio, ha condotto il popolo nel deserto, è stato chiamato sul monte a ricevere le Dieci Parole, le cui tavole ha rotto di rabbia al vedere il vitello d’oro. Ecco dove si colloca la richiesta. Perché quella di Mosè è un’audace richiesta di reciprocità: «Tu mi conosci dal ventre materno, sai chi sono, da dove vengo, conosci ogni mia paura, debolezza, limite, perplessità, arroganza. Fatti conoscere anche Tu!». È una richiesta, ma, al contempo un grido d’aiuto. Perché l’uomo ha bisogno di un Tu a cui rivolgersi. Sarà esaudito? Sì e no.
«Tu non potrai vedere il mio volto»: è la specifica. Tuttavia, non è un diniego assoluto, è solo un sì con la condizionale. E le condizioni sono piuttosto precise:«Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Es 33, 21-23).
Quello che segue, nel testo, è la ritualità di un incontro che rinnovi un’alleanza. Rotte le tavole, ne servono di nuove. Mosè sale sul monte, con due nuove tavole, su cui riscrivere le parole dell’Alleanza.

«Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34, 6-7)

Eccola, la carta d’identità di Dio. Per chi fosse tentato di creare un’artificiale contrapposizione tra il Dio d’Israele e il Dio di Gesù Cristo, passi come questo sono utili a cancellare i dubbi. Se c’è una caratteristica che si ripete, nel percorrere la Sacra Scrittura, è l’immagine di un Dio che riesce a coniugare Perfetta Giustizia con sovrabbondante misericordia, che, in questo caso, così come in altri (cfr. Club Theologicum), è sottolineato dalla sproporzione numerica. L’amore è conservato per mille generazioni. La punizione arriva al massimo fino a 4. Tenendo per buona la concezione “classica” di generazione, valutata in 25 anni, il rapporto è, significativamente, di 25.000: 100.

Il Vangelo che segue, almeno apparentemente, non sembra avere alcun collegamento rispetto alla Prima Lettura, perché contiene il brano delle Beatitudini.
Forse, una riflessione può aiutarci a vederne il collegamento:

«Quelli che vedono Dio parteciperanno alla vita, perché lo splendore di Dio è vivificante. Per questo colui che è inafferrabile, incomprensibile e invisibile si offre alla visione, alla comprensione e al possesso degli uomini, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Infatti la sua grandezza è imperscrutabile, e la sua bontà inesprimibile; ma attraverso di esse egli si mostra e dà la vita a quelli che lo vedono. È impossibile vivere senza la vita, e la vita consiste essenzialmente nel partecipare a Dio, partecipazione che significa vedere Dio e godere della sua bontà. […]la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!» (S. Ireneo di Lione, Contro le eresie)

Di primo impatto, siamo forse portati a suddividere nettamente ciò che riguarda Dio e ciò che riguarda l’uomo. Un conto è la carità, un conto la preghiera. Quasi come se la Messa domenicale sia una sorta di “pegno” da pagare al buon Dio, affinché non si stanchi di noi e ci mostri ancora il Suo volto, che, al contrario di Mosè, ci è stato mostrato, in Cristo. L’Incarnazione ha cambiato la concezione stessa di Dio, così come quella dell’uomo. Uomo e Dio è come se potessero ora specchiarsi l’uno nell’altro. Cristo, rivestitosi di carne, ci ha mostrato il volto del Padre, per invitarci a partecipare della Sua vita immortale.
Ogni uomo, dunque, nell’Incarnazione del Figlio, è chiamato a mostrare il volto del Padre, che sa essere generoso e misericordioso. La fase finale, tuttavia, è forse la parte finale. Al contrario di Matteo, nella versione di Luca, ad ogni beatitudine corrisponde una “maledizione”, o – meglio – un’allerta (guai a voi). Tra tutti, questo è probabilmente il più il più interessante: Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti (Lc 6,26).
Credo che sia un passo che ci tocchi un po’ tutti, perché va a colpire proprio una caratteristica tipica dell’animo umano. Il bisogno, il desiderio e la necessità di trovare conferma, rispetto, approvazione, attenzione. È normale: risiede in ciascuno di noi, fa parte di noi e – inevitabilmente – può influenzare la nostra vita e le nostre scelte. Da una parte, è spirito di sopravvivenza: anche il più polemico, difficilmente, cerca il conflitto per il conflitto; se lo fa, è perché avrà comunque un minimo seguito, oltre che per i motivi di principio che possono averlo spinto al duello dialettico. Tuttavia, Cristo, in questo caso, inserisce un discrimine molto importante: quando l’apprezzamento è generale (in politica, diremmo, trasversale), fino a rasentare l’unanimità, ciò dovrebbe – per noi – rappresentare un motivo di sospetto, rispetto alla fedeltà della nostra sequela. Di fronte alle parole di Cristo, gli atteggiamenti sono stati molteplici e, anzi, non sono mancate le polemiche quando non le aperte ostilità, tanto che il Maestro giunge a domandare ai propri discepoli: «Volete andarvene anche voi?» (Giovanni 6,67). Se il consenso è unanime, il rischio è che stiamo addomesticando la Parola, invece di portare il Fuoco sulla terra, per alimentare la fede, stiamo soffiando sul lumino fumigante. Perché non esistente nulla d’indifferente: alcune azioni portano al bene, altre, invece, portano un male più o meno grande.

San Paolo riprende questo discorso, nella Prima Lettera ai Corinzi. L’Apollo cui si riferisce non è il dio greco, anche se può esserci un riferimento metaforico: si tratta di un altro predicatore, molto carismatico e capace di infiammare chi lo ascoltava, nonostante avesse ricevuto “solo il battesimo di Giovanni”.
Forse, umanamente, Paolo era anche un po’ invidioso del successo del rivale, ma ne trae spunto per una precisazione importante, ancora attuale:

«Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3, 9-11).

Uno solo è Cristo. Tanti sono i carismi ed i volti che la Chiesa può offrire per avvicinare a Lui. Tuttavia è importante, da una parte, rimanere fedeli a se stessi (vedere la bellezza che è presente in un altro non può né deve spingermi a volerlo emulare, non tenendo presenti i miei limiti, così come le mie – differenti – potenzialità), dall’altra ricordare che tutto quanto facciamo avviene sempre attorno a Cristo che è al centro, perché è il centro, il cuore pulsante di una chiesa di peccatori che guardano a Lui per ritrovare se stessi. Solo con questa consapevolezza, potremo affrontare il rischio che comporta prendere seriamente il Vangelo!

 

Rif; letture festive ambrosiane, nella VI Domenica dopo Pentecoste (Es 33, 18 – 34, 10; 1 Cor 3, 5-11; Lc 6, 20-31)


 Fonte immagine: Pixabay

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