C’è un rituale che, da alcuni anni a questa parte, accompagna ogni mio ultimo giorno di scuola. Una volta tornata a casa – dopo aver trascorso la giornata tra festeggiamenti di giubilo, lacrime per l’imminente separazione dai compagni e dagli insegnanti, sospiri di sollievo al suono dell’ultima campanella – mi aspetta la cerimonia del distacco dell’orario settimanale. È per me un vero e proprio momento solenne, celebrato in pompa magna, con tanto di ringraziamenti a quel foglio colorato e decorato che per nove mesi ha scandito i miei ritmi. Quest’anno scolastico, scombinato per una buona metà da una pandemia che ha sconvolto molte esistenze, mi sono rifiutata di celebrare la mia cerimonia anzitempo. E così dal 5 marzo l’orario è rimasto lì, ormai inutile in apparenza, ma come promemoria di quanto la normalità – anche tra mille corse – sia qualcosa di incredibilmente fragile e prezioso.
“A percorso ultimato, cosa vi è rimasto di questa Didattica a Distanza?” È una delle domande che più spesso ci sentiamo fare noi insegnanti, sia come confronto tra colleghi, sia come spiegazione che ci chiede chi non è addetto ai lavori. La mia personale risposta è che se la Didattica c’è stata, anche se con modalità a cui non eravamo decisamente abituati, è però la Distanza che ha ottenuto la triste palma della vittoria. Questo perché l’insegnamento è composto da una buona fetta di contatto fisico, più grande quanto più l’età degli studenti si fa piccola. Dall’abbraccio di saluto, alla carezza di conforto, alle manine che con insistenza richiamano la tua attenzione. Dai sorrisi di incoraggiamento, ad un’occhiata che regala fiducia, ad un complimento per un lavoro svolto con impegno.
Abbiamo talmente dato per scontata la fisicità dei nostri rapporti interpersonali che, quando è stata troncata d’improvviso – non solo in ambito scolastico – ci si è sentiti più o meno come pesci fuor d’acqua.
E pensare che, quando essa non è stata data per scontata, è stata addirittura vituperata ed eletta come uno dei mali che affliggono l’essere umano: la corporeità come un ostacolo da cui liberarsi il prima possibile a beneficio di una spiritualità “intrappolata”, come un peccato mortale di cui vergognarsi e da non dover mai assecondare. No, non sono pensieri così tanto lontani nel tempo come sembra – era una delle eresie più frequenti nei primi secoli dell’era cristiana – poiché ideologie simili serpeggiano ancora oggi in gruppi simil-religiosi e non.
Per un curioso caso, mi ritrovo a scrivere queste righe proprio oggi in cui si celebra il Corpo per eccellenza. Una delle chiavi di volta dell’identità cristiana: un Dio che si fa Corpo, reale e tangibile, quale strumento di salvezza per tutte le sue creature. Un Corpo che va incontro alla morte e la vince per sempre, la cui risurrezione è promessa di vita elargita in eterno. Una risurrezione non solo in termini spirituali, ma con una fisicità volta a darle pienezza. Un Corpo che si fa pane e che chiede solo di diventare parte di noi: quel “pane vivo disceso dal cielo” non domanda infatti di essere contemplato e basta, tenuto a debita distanza. Chiede invece d’essere preso, distribuito, accolto.
Quel Corpo è il riscatto per il nostro corpo. Quella fisicità è il modello per la nostra. Ci è stato dato in dono il poter abbracciare, accarezzare, sorridere, il poter proferire parole d’amore, cantare ninne nanne di speranza; tendere le mani per sollevare, prestare aiuto, guarire; porgere l’orecchio per ascoltare la voce della persona amata e sentire le farfalle che s’agitano nello stomaco. Ci è stato dato in dono di riconoscere nel prossimo lo stesso Corpo che s’è fatto salvezza, senza distinzione di lingua, di colore, di ceto sociale, perché in quell’Uomo è racchiusa tutta l’umanità, dall’inizio fino alla fine dei tempi.
Si ringrazia don Giovanni Berti per la vignetta.
Si ringrazia Luigi Santopaolo per il titolo e per le sue splendide catechesi di quarantena.