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Dal Siracide, nella Prima Lettura, troviamo uno sguardo che rivolge a tutta la Creazione. È indulgente e amorevole: vede, nel creato, il dono che Dio fa all’uomo e l’immagine della Sua bellezza e bontà. Il mondo intero è affidato all’uomo, affinché ne abbia cura e lo custodisca.
Forse, proprio custodia è la parola chiave: il mondo intero è ai piedi dell’uomo, ogni cosa creata è a sua disposizione; tuttavia, nel ricevere questo come un dono dalla generosità divina, ne è – al contempo – responsabile: è chiamato a prendersene cura e fare in modo che si mantenga come è stata pensata da Dio: un’opera di bellezza e di fantasia, che rimandi al Suo Creatore, cosicché ogni uomo, guardandosi intorno, possa dare lode a Dio.
Non solo, proseguendo, aggiunge una parola, che è rivolta all’uomo

«Guardatevi da ogni ingiustizia!» e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo. (Sir 17, 14)

Non soltanto, ogni uomo è chiamato a custodire il creato, prendendosene cura, in modo tale che la sua bellezza sia un richiamo ed un riflesso dell’Eterna Bellezza di Dio; ciascuno è chiamato anche alla custodia dell’altro. Reciprocamente: ognuno secondo le proprie competenze, capacità, possibilità, perché il criterio è la giustizia. Giustizia è fare in modo che non sia la legge della giungla (basata sulla bruta forza fisica) a regolamentare i rapporti tra gli uomini, bensì, a ciascun esemplare della stirpe umana, indipendentemente dalla forza, dalla salute, dall’etnia, dalle dimensioni, dall’età, dal sesso, sia riconosciuto dì quel valore intrinseco ed inalienabile che gli proviene dall’essere umano.
Non manca, del resto, un richiamo verticale: come gli animali sono chiamati al timore (inteso come rispetto) nei confronti dell’uomo, esso diventa specchio del timore che l’uomo è chiamato a nutrire nei riguardi di Dio. È un memento necessario: tutto ciò che è fatto, se non l’ho fatto io, deve portarmi a pensare, riflettere e rispettare chi ne sia l’autore. Questo principio si riversa anche nei rapporti orizzontali; non importa se si tratti di un lavoro umile, artigiano, tecnico, oppure un lavoro d’ingegno: in una società così finemente specializzata e settorializzata, è inevitabile trovare molteplici ambiti in cui la realtà impone a qualche persona di dichiararsi, con semplicità, ignoranti. Per un architetto, la teologia può essere una costruzione troppo ardita per la sua comprensione; per un giardiniere, artista esperto di innesti, la panificazione risulta un’operazione estranea; al meccanico, esperto di motori e pistoni, l’architettura risulta difficoltà come una lingua straniera mai sentita. Per ognuno di noi, per quanto estesi possano essere competenze, qualità o cultura, ci sarà sempre qualche ambito che si risulta terra straniera, in cui ci rendiamo conto di doverci affidare ad una guida turistica esperta, che ci consenta di inoltrarci in questo campo, almeno qualche metro in più dell’ignoranza più assoluta, a cui saremmo condannati dal nostro rifiuto ad accogliere una maestria differente da quella che noi abbiamo ottenuto.

Il grande rischio che, però, tutti noi corriamo è quello di lasciarci irretire dalla Creazione, indulgendo in essa ed assegnandole quegli attributi che, in realtà, non sono che riflessi di quelli del Suo Creatore. San Paolo ci mette in guardia da questo, nell’estratto della lettera ai Romani, che la liturgia ci propone.
È interessante notare come un simile aspetto abbia avuto grande fortuna letteraria. Tant’è vero che, basandosi sugli scritti del filosofo di Tagaste, uno tra i più famosi intellettuali che riprenderà un simile argomento sarà proprio il grande Francesco Petrarca, nel suo Secretum, in cui condurrà un dialogo serrato con S. Agostino, nel quale il filosofo mette alla strette le scelte – letterarie e biografiche – dello scrittore aretino.

Aug. E qual sarai tu, ove io ti piaghi della mortale ferita? Or sappi che questa a cui ti professi debitore di tutto, questa fu che t’uccise.

Fr.
Dio buono! e per che modi me ne potrai persuadere?

Aug.
Ella, dilungandoti dall’amore del cielo, in cambio del creatore ti fece inchinar l’animo alla creatura, e ciò fu che agevolmente ti menò a morte.

Fr.
Non sia così affrettato il tuo giudizio. Io ti so dire anzi che l’amore di lei mi condusse a quello di Dio.

Aug.
Però ne ha sconvolto l’ordine.

Fr. Cioè?

Aug. Mentre ogni creatura deve essere amata per amore del Creatore, tu, invece, preso dal fascino della creatura, hai amato il Creatore, non come si conviene, ma ammirandone soltanto il suo artefice, quasi non avesse creato nulla di più bello. E sì che la bellezza corporea è l’ultima delle bellezze!
(Il mio Segreto, Francesco Petrarca, libro terzo n. 20 – ed. Bur Classici, 2000, p. 223)

Ma, verrebbe da aggiungere, pur essendo l’ultima delle bellezza è quella che, con maggior ardore si rivela e colpisce l’occhio umano, rivendicandone l’attenzione!

Senz’altro, essere preceduti da un simile gigante della letteratura, ci consola, nell’umana constatazione della nostra pochezza di fronte alle meraviglie del creato. Se, da un lato, il rischio è di non accorgerci neppure di tutta la Bellezza di cui siamo, costantemente, circondati, navigando da un’insoddisfazione all’altra, perennemente in cerca di qualcos’altro, dall’altro, talvolta è la natura bella delle cose create a diventare lo schermo, che ci allontana da un autentico incontro con il suo artefice. Solo in Dio, riusciamo a riscoprire l’equilibrio che deriva dal lasciarsi stupire dalla Bellezza, in ogni sua forma, senza però lasciarcene imprigionare, divenendo incapaci di volgere lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto, l’Unico nel quale riesce a trovare significato persino ciò che l’intelletto non riesce a decifrare.
Di fronte alla Sapienza divina, la nostra intelligenza impallidisce, perché, non sempre, è sufficiente per valutare la giustizia e la bontà delle nostre azioni, influenzati come siamo dai nostri desideri, dalle nostre aspettative e dalla nostra ricerca di approvazione. Da soli, rischiamo di essere «come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore» (Ef 4, 14): siamo – consapevolmente o parzialmente inconsapevolmente – incoerenti ed inadempienti, incapaci di discernere il vero dal falso, il giusto dallo sbaglio, il necessario dal futile.

 

Nell’estratto evangelico , che la liturgia propone, troviamo un approfondimento, rispetto al tema introdotto da San Paolo, che costituisce – forse – uno dei punti più controversi ed esigenti dell’intero Vangelo.
Dopo aver confermato la propria adesione ed il proprio rispetto alla Torah, Gesù conferma di non volerla abolire, bensì pienamente adempiere, facendone emergere il senso più profondo e lo spirito più vero:

«Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». (Mt 5, 43-48)

Abbiamo sentito tante volte questo passo e averlo sentito altre volte rischia di averci fatto anestetizzare la carica innovativa, rivoluzionaria e coinvolgente per l’uomo di ogni tempo. A mo’ di difesa, tendiamo a depotenziarne la portata, quasi lasciando intendere che si tratta di un ideale a cui tendere, ma non veramente qualcosa che possiamo raggiungere. Non può sfuggirci un dettaglio. Non utilizza un congiuntivo di desiderio: qui si parla di un imperativo. Ci impone l’amore, non solo verso chi conosciamo, ma anche – e soprattutto – nei confronti di chi vorremmo evitare. È opportuno ricordare in che punto si inserisca un simile discorso. Esattamente dopo le Beatitudini, per cui, alla domanda “ma perché dovrei prendere un’iniziativa così masochista?”, la risposta, paradossale a prima vista, è: per essere felice. La spiegazione arriva nelle righe seguenti, anche se non elimina – ancora oggi, dopo più di duemila anni – lo scetticismo: per assomigliare a Dio.

 

È da vertigine anche solo pensarlo; eppure, questo è il motivo di fondo di tutta la Rivelazione: se Dio si è incarnato, è perché noi potessimo realizzare appieno l’immagine di Dio in noi. Siamo, insomma, chiamati non solo a diventare santi, bensì, a diventare un tutt’uno con la Santissima Trinità. Perché questa è la Comunione a cui siamo chiamati tutti, insieme con i Santi. Per questo, siamo chiamati ad un respiro più ampio: trascendere il do ut des che permea il modo di ragionare umano, per guardare l’intera realtà con lo sguardo divinamente clemente del Creatore, capace di posarsi, come una carezza, su ogni realtà creata.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella II domenica dopo Pentecoste, anno A (Sir 17,1-4.6-11b.12-14; Rm 1,22-25.28-32; Mt 5,2.43-48)


Fonte immagine: Pixabay

Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

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