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L’anniversario è un promemoria: è l’occasione per celebrare le gioie di oggi, i ricordi di ieri, le speranze di domani. Ogni storia d’amore ha i suoi anniversari. È così che, nella prima decade di giugno, mentre le ciliegie ingolosiscono il palato, i preti ricordano (e celebrano) il loro anniversario di ordinazione. È una data, il promemoria di un evento-spartiacque, la ricorrenza di un inizio che, per tanti, è stata anche la fine. La fine dei loro sogni, perché un conto è poggiare le fondamenta su sogni di uomini, un altro è trovarsi a dover imparare a sognare, declinando i sogni di Dio. Raramente le due prospettive combaciano, il più delle volte differiscono, sono divergenti, qualche volta pure contrastanti. Ci si accorge, all’indomani dell’ordinazione, ovviamente: fosse possibile farlo prima, Dio non sarebbe più l’Amante fuoriserie che dichiara d’essere. Dio (dis)umano.
Per il prete quello di quest’anno è un anniversario strabico: per mesi, ci è stata tolta la materia prima di lavorazione, che sono le anime. La maggioranza, a vederla da fuori, somigliava a degli scultori senza legni, pescatori senza reti, tessitrici senza gomitoli di lana. Quando mancano le anime, manca la materia prima nella quale fare scorrere la linfa di Cristo e della sua Novella. Senza più il popolo appresso, le case-chiese serrate, i sacramenti in stato di sequestro: “Che senso ha fare il prete in queste condizioni?” si sarà pur chiesto qualcuno, mandando in frantumi le sue ricette. Altri, nella clausura dei loro domicili, si sono trovati a fare i conti con la lontananza, l’abbandono, l’impotenza, l’ansia di chi, nelle burrasche, era abituato a condurre la navigazione invece di guardarla da seduto. Le canoniche, da fuori, potevano apparire deserte. Dentro, però, anche il prete tentava di non fare naufragio: tra decreti da leggere, silenzi da sbobinare, pensieri da dipanare. A guerreggiare con istituzioni che non immaginava così aride, a sbarazzarsi tra inquietudini, a confidarsi paure e tremori. Ad aspettare una telefonata che mai, forse, arriverà. Certo che il prete è un padre: qualcuno si sente amato dal prete più che da suo padre. Il prete, però, è anche figlio: in certi attimi anche il prete va alla ricerca di papà, di una paternità con la quale raccontarsi. Quando papà è latitante, capita che ci siano figli orfani con padri vivi: perde il figlio, perde papà. Si perde tutti.
La celebrazione dell’anniversario, per un prete, è il più grande esame di coscienza, una vera e propria prova di maturità. Per questo, forse, preferisco celebrarlo nella maniera più silenziosa possibile, quasi impalpabile anche a me stesso: t(r)emo di non essere mai stato quell’uomo che Dio ancora si intestardisce di sognare. Quando ripenso al mio sacerdozio, mi immagino io e Dio come una di quelle coppie che stanno correndo forte per non perdere il bus. Lui va veloce, io sono lento: ma il mio stupore si infiamma quando mi accorgo che Lui preferisce perdere il bus piuttosto che salirci senza di me. Un Dio così mi procura una tenerezza feroce! Forse, è per questo che, anche quando un sacerdozio chiude i battenti, non è mai una conclusione: è il primo anniversario di una nuova tappa, magari incomprensibile, ma pur sempre a disposizione. Una correzione di traiettoria per affinare l’intuito della felicità. Quest’anno, io e Dio ci siamo trovati a celebrare un anniversario di stanchezze. È stato bellissimo, ci siamo citati a memoria una riga di Francois Mauriac: «Nei volti stanchi e scavati di alcuni preti ho visto occhi di adolescente». Ci è bastato.

(da Il Mattino di Padova, 7 giugno 2020)

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Dal 3 giugno in tutte le librerie I gabbiani e la rondine (Rizzoli), il nuovo libro di Marco Pozza

La sofferenza, la rinascita, la bellezza nella Via Crucis che ha commosso il mondo.
Roma, 10 aprile 2020, Venerdì Santo. Nel pieno della pandemia, la Via Crucis celebrata dal Papa non si svolge in mezzo alla folla, nel Colosseo, ma nella piazza San Pietro deserta, sotto lo sguardo dell’antico crocifisso della chiesa di San Marcello al Corso. Le parole che risuonano nella notte della morte e del dolore provengono dalla parrocchia del carcere di Padova: a meditare sulle quattordici stazioni della Passione di Cristo è un’intera comunità di uomini e donne che abita e lavora in questo mondo ristretto. “Mi sono commosso” ha scritto Papa Francesco. “Mi sono sentito molto partecipe di questa storia, mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata.” In questo libro, partendo dalle meditazioni sulla Via Crucis raccolte e scritte insieme alla giornalista e volontaria Tatiana Mario, don Marco Pozza ha costruito un racconto sulla fede e la risurrezione dei viventi: la Via Crucis di Gesù diventa così una Via Lucis degli uomini, la cui sofferenza è stata riscattata da Cristo in persona. “Mai celebrata una Via Crucis così” scrive l’autore. “Pareva davvero d’attraversare l’Odio desiderando l’Amore.”
(Per prenotarlo clicca qui)

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