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Il dogma della Santissima Trinità, che celebriamo (ambrosiani e romani congiuntamente) ci immerge in uno misteri più grandi della nostra fede, quello che ha messo in crisi persino grandi santi, come sant’Agostino, che si sentiva come di fronte ad un mare sconfinato, che la sua testa cercava – con alterni risultati – di contenere.
La prima immagine che ci offre la liturgia arriva dal libro dell’Esodo: è il roveto ardente.
È interessante collocare questo episodio, innanzitutto, nell’economia della storia di Mosè. Il momento in cui lo coglie il capitolo terzo è quello che segue l’azione di Mosè che, nel difendere uno schiavo ebreo da un egiziano, finisce con l’uccidere quest’ultimo. Mosè, mezzo ebreo e mezzo egiziano, uomo dal cuore diviso, sembra non riuscire a trovare posto in nessuna delle comunità: per questo, fugge, cercando rifugio in una tranquilla vita di pastore. Eppure, è Dio a non dimenticare. Né il Suo popolo che soffre. E si manifesta a lui in modo così insolito ed unico, nella storia della rivelazione. È da ritenersi, infatti, assolutamente unica tra le teofanie che si susseguono nel testo sacro e – forse proprio per la sua spettacolarità – è tanto nota.
L’immagine, infatti, celebre anche per chi non è abituale frequentatore di chiese, è proprio questa: un arbusto che arde, ma non si consuma. Una simbologia sicuramente densa di significati.
Senz’altro, possiamo vedere un primo significato che, prima ancora d’essere spirituale, è antropologico. Mosè si avvicina perché incuriosito, meravigliato, da una fenomeno sconosciuto: perché il roveto arde, eppure non si consuma. Lo stupore, spesso, è l’anticamera che muove l’uomo verso la volontà e l’impegno a conoscere, in qualunque campo: scientifico, letterario, tecnico, teologico. Sono le domande che abbiamo in comune coi bambini: perché? Quando inizia quella stagione, i genitori si disperano, perché la sfilza dei perché sembra non avere mai fine: eppure, è il primo segnale che il figlio sta crescendo, che vuole capire, scoprire, imparare tutto, del mondo che lo circonda.
In secondo luogo, possiamo vedere una – possibile – visione di Dio. Diverse saranno presenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento. È interessante notare come si moltiplichino le modalità con cui Dio sceglie di avvicinare l’uomo. Commovente osservare come pare che, dietro questa scelta, ci sia uno studio che muova dal desiderio. Quasi che anche Dio provi nostalgia dell’uomo, Sua creatura e si muova in cerca di lui, pur di fare in modo che l’incontro si realizzi!
È suggestivo notare, poi, che l’arbusto della teofania è qualcosa di inutile, irrilevante per l’uomo. Un roveto è solitamente bruciato, ma affinché sia estirpato, per far posto ad altre piante, ornamentali oppure fruttifere che siano. Un roveto non è altro che un’erbaccia. Eppure, proprio in questo luogo, Dio sceglie di manifestarsi.
Di fronte a Dio, però, non possiamo non attuare un mutamento. A Mosè, è chiesto di togliere i sandali e coprirsi il capo: in questi gesti, è racchiuso il senso del sacro che consente il riconoscimento di chi sta alla presenza di Dio. Nelle nostre chiese, lo è inginocchiarsi, facendo un segno di croce: ricorda, innanzitutto a noi, che stiamo innanzi a una Presenza. Anche deserta, la chiesa rimane sempre “luogo abitato”.
Nel breve dialogo, che Mosè intrattiene con Dio, avviene un importantissimo fatto. Corrisponde ad una sorta di “agnizione”, cioè ad un riconoscimento: Dio si presenta, come il «Dio dei padri» (quasi a dire: “sono lo stesso, di cui hai già sentito parlare, non un altro!”). YHWH: il tetragramma ebraico, sarà la rivelazione del nome di Dio. Che, tradotto, significa “Io sono colui che sarà”. I filosofi greci avrebbero potuto definirlo “traboccante d’essere”. Un nome, ch’è tutto un programma, perché pone a nudo, fino a metterle in ridicolo, le nostre preoccupazioni sul tempo e sullo spazio, perché, agli occhi di Dio, tutto il tempo è condensato in unico punto, essendo capace di racchiudere, nella propria volontà, presente, passato e futuro.

L’epistola, che ci propone un brano tratto dalla Lettera di san Paolo ai Romani, porta la nostra riflessione sul nostro rapporto nei confronti di Dio: in Cristo, noi acquisiamo, con Lui, quella familiarità, che ci fa passare dall’essere servi (tenuti all’obbedienza, in un certo senso, per dovere legato alla nostra condizione) all’essere figli. Questo cambiamento rappresenta una sorta di passaggio di stato fisico, come l’acqua che, da liquida, diventa solida: non affronta un cambiamento chimico, tuttavia si presenta a noi in modo del tutto diverso e rinnovato. Così è per noi: essere figli non ci esenta dall’obbedienza, ma ne svuota il significato, da dentro. La nostra obbedienza non è più qualcosa di dovuto: diventa, piuttosto, risposta all’amore ricevuto e si instaura in un circolo d’amore (quello trinitario) che, per inevitabile e prodiga sovrabbondanza, si riversa sul genere e lo chiama ad essere partecipe della sua stessa unità, che è perfetta comunione, senza diventare indistinta uniformità. Guardare alla Trinità come scuola d’amore equivale, infatti, a disporsi all’ascolto di un amore capace di cercare il bene dell’altro, ma anche di convivere con l’altro, senza – per questo – uscirne deperito o menomato. Nella Santissima Trinità, l’Amore lega le tre Persone, nella libertà, senza scalfire l’identità di ciascuna di esse. È l’invito più grande al nostro essere comunità: la raccomandazione di ricercare l’unità, in Dio, senza, però, per questo, soffocare le singole sensibilità dei singoli, che è bene abbiano la piena libertà di espressione, nella possibilità di arricchimento di tutto il Corpo mistico.

 

Del resto, è anche quanto sottolinea Cristo, nel breve brano evangelico, tratto dai “discorsi di addio”, contenuti nei capitoli 13-17 del Vangelo di Giovanni :

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16, 12 – 15).

La Spirito «guida alla Verità», cioè a Cristo stesso, il Logos, eppure «non parla da se stesso»; del resto, anche Cristo non agisce in solitudine, perché «tutto quello che il Padre possiede» Gli appartiene. Il Padre manda il Figlio e lo Spirito rende presente nel tempo l’azione di Cristo, fungendo da promemoria agli apostoli – e non solo – della Parola di Dio. Vediamo quindi una comunione d’intenti, nella ricerca di realizzare un unico obiettivo, ma, soprattutto, l’assenza d’invidia e gelosia.
Nella consapevolezza dell’unicità di ciascuno, nella libertà che è propria dei figli di Dio, guardando alla Trinità, non possiamo che pensare che l’amore, sovrabbondante e gratuito che la Trinità ci mostra, chiede di liberarsi del pesante fardello delle invidie, che rischia di intossicare anche i nostri più sinceri tentativi di specchiare i nostri sentimenti sul modello di quelli trinitari.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella Solennità della SS. Trinità (Es 3, 1-15; Lettera ai Romani 8, 14-17; Gv 16, 12-15)


Fonti:
Robert Cheaib, theologhia.com
Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

Fonte immagine: Pixabay

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