rondine
Fatto è che quando si appartiene ad una minoranza ci sarebbe l’obbligo ad essere migliori per riuscire ad elevarsi al di sopra della maggioranza. In questi giorni la discussione è infiammata: la possibilità o meno di poter celebrare l’eucaristia è il leit-motiv di ogni dibattito. Ne esco immediatamente: m’importa assai (è l’importanza fatta carne per me), ma non è così ferrea la mia veduta d’insieme dei piani sovrapposti. Anche per me il Papa ha pregato: «perché (il Signore) dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”. M’importa la reazione suscitata a margine dell’ultimo intervento del premier, con annessa risposta della CEI: non m’importa, però, una qualsivoglia presa di posizione. “Cosa t’importa, allora?” potrà stizzirsi qualcuno non vedendomi interessato ad alimentare nessuno di questi due ghiottissimi focolai. Mi interessa il tra-le-righe di ciò che sta emergendo, circa l’essere Chiesa, in questa stagione: vedersi costretti, ogni tanto, a fare i conti con la realtà è una lezione intellettualmente onesta. Un conto è ciò che noi (ci) raccontiamo di noi – “Noi cristiani siamo rilevanti, abbiamo influenza, possiamo permetterci di dettare un’agenda” -, altro è fare i conti con ciò che nasce in chi ci guarda. Guardarci da fuori, per chi è interessato, aiuta moltissimo nella sfida del migliorarsi: altrimenti quale guadagno il confronto con l’altro, magari pure diverso?
Ciò che noi siamo ci è stato detto ovunque in queste settimane: siamo una splendida realtà di uomini, di donne che s’interessano degli ultimi. Ci riconoscono il sapore di certe parole nel momento in cui l’uomo muore senza più parole, ci accreditano la passione per l’educazione. Non tacciono nemmeno che i poveri, senza la Chiesa, sarebbero immondizia. Cioè il mondo, a noi cristiani, dice che siamo gente brava. Di più: che senza il nostro darci da fare il mondo vivrebbe dei vuoti insanabili. “Mamma mia, mi commuove questo!” ci viene da dire di primo acchito. Certo, è bellissimo: questo è quello che, tante volte, lasciamo trasparire di noi, noi cristiani. Non è poco. Però, pensandoci, queste sono le cose penultime della storia: quelle che dovrebbero avere a cuore tutti, che hanno a cuore in tantissimi. Ci fosse una sfida (che non c’è), ci troveremmo in competizione con infinite agenzie di educazione, associazioni di volontariato, enti caritatevoli, tanto altro. “Guarda che ci abbiamo messo un sacco di tempo a mettere in piedi tutto questo”, dirà qualcuno. Come affermare il contrario: la mia storia è il frutto di una carità smisurata! L’abbiamo fatto pure in buona fede, rischiando, e il rischio fa parte del gioco: “Vedendoci vivere così, la gente si accorgerà di Cristo” abbiamo usato come incentivo: il fare, anche il pregare poi. È accaduto davvero così?
Qualcuno non sempre si è accorto di questo Dio in filigrana. “Se sono miopi, che colpa ne abbiamo!” è la via di scampo. C’è anche un’altra prospettiva, che le (nostre) cose penultime ci abbiano un po’ distratti dalle cose ultime, quelle che fanno la differenza: l’eucaristia, la risurrezione, la vita eterna. Guarda caso: sono proprio queste, oggi, a non venire considerate quando parlano di noi, o quando debbono tenere in considerazione ciò che conta per non rischiare il contagio della morte. Noi, alla nostra storia cristiana, ci teniamo così tanto da non tacere che ci sono delle interferenze d’interessi che, a volte, impediscono la visuale. Abbiamo pagine da “Nebbia in Val Padana” e altre da “Sole in tutta la penisola”. Per le prime ci hanno detto “Siete testimoni autentici di Cristo”, per le altre che siamo la brutta-copia di Cristo, cioè dannosi ai fini della conoscenza di Dio. Il bene fatto, comunque sia, rimane: in tanti lo applaudono, lo incitano, lo promuovono, lo additano. Questa, però, è la versione laica della Chiesa: un’onesta (sì!) organizzazione che si impegna nel favorire gli scarti, nel coprire buchi, nel farsi serva. “Per far questo non occorre mica andare in chiesa!” mi ha rinfacciato una signora. Ha ragione: è dell’umano servire l’umano, tant’è che quando manca si dice ch’è (dis)umano. Dunque?
È così semplice d’apparire persino fastidioso dircelo allo specchio: per il mondo, tolto il nostro servire, non siamo granché rilevanti. “Il calcio, almeno, ci fa battere il cuore, don!” mi ha scritto Alessandro: ho fiutato il non-detto del suo garbo. Abbiamo una certa rilevanza (forse) nelle cose penultime, ma se non riusciamo a far intravedere, in filigrana, le ultime, quelle che fanno battere il cuore cristiano, perchè il mondo dovrebbe trattarci con guanti di velluto? Per me questi giorni sono ad altissima densità spirituale: “Siete diventati irrilevanti!” ci sfotte la gente Questa carezza-cartavetrata, mi induce a ripensarmi prima che indurmi alla tentazione della replica. Se non si sono accorti di Chi mi abita, due sono le opzioni: o il Suo messaggio non è rilevante, oppure la mia testimonianza ha alzato troppo la voce rendendo afona la Sua. Propendo per la seconda: poche volte, preso dai mille servizi, mi sono chiesto cosa l’altro (intra)vedesse dentro il mio zelo.  Mea culpa, Domine!
Mi ero illuso d’essere rilevante, invece sono stato solo importante qualche volta. Nemmeno necessario. “Sparite!” suggerirà qualcuno. Assolutamente almeno per me! Dio non ha portato mai nessuno in esilio a Babilonia per nulla. Si torna, magari, in-minoranza rispetto a quanti si era partiti, ma con le idee più chiare sulle cose ultime. Visto che sulle penultime in tanti possono dire di poter fare la differenza meglio di noi. Non mi resta che stare in ginocchio, a pregare le cose penultime di non sorpassare quelle ultime.

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