copertina Da un filmato del 1923jpg

Una battuta, tratta da un’opera cinematografica, ben sintetizza l’importanza del riconoscimento del Male, quando se ne presenti l’occasione:

Sai cosa disse Hitler ai suoi generali per convincerli che il suo piano non poteva suscitare obiezioni? «Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?» (Raffi, nel film “Ararat – il monte dell’Arca)

Il genocidio degli armeni, avvenuto in Turchia, tra il 1915 e il 1923, è considerato, da molti storici, il primo genocidio del XX secolo. Gli albori possono tuttavia essere annoverata già sul finire del XIX secolo: nel 1890, dopo aver instillato nei curdi sentimenti di odio anti-armeno (per paura di una ribellione di questi ultimi), quando questi reagirono all’oppressione dei curdi, ne bruciarono i villaggi; due anni dopo, istituirono dei pogrom (Istanbul temeva, infatti, l’alleanza dei circa 2 milioni di sudditi armeni, cristiani, con gli slavi ortodossi, per attuare la distruzione dell’Impero ottomano). Dai primi mesi del 1915, poi, i cittadini maschi in età da militare furono inviati nei “battaglioni da lavoro”, mentre il resto della popolazione è deportato in Siria con le “marce della morte” (molti morirono per fame, oppure di stenti). Il 24 aprile è il giorno in cui si ricorda questo massacro perché in tale giorno, nel 1915, 2345 persone furono arrestate ad Istanbul e giustiziate, con l’accusa di alto tradimento: rappresentavano l’élite armena della capitale.
Il genocidio, infatti, non è mai l’eliminazione dei più deboli. Paradossalmente, è proprio l’eliminazione dei più forti: il perdente radicale pensa, infatti, che sia più conveniente eliminare il rivale, che affrontarlo, perché teme di perdere, in un confronto diretto e ad armi pari. Basti pensare che, in Turchia, gli armeni rappresentavano la fascia più colta della popolazione: pur essendo il 10%, costituivano il 50% dei medici ed il 50% degli ingegneri. Il loro sterminio ha significato, tra le altre cose, perdere un numero esorbitante di medici, per altro, proprio durante il primo conflitto mondiale. Ci rendiamo conto, in particolare in momenti come questo, quanto queste figure professionali possano essere importanti, per una nazione.
Quest’anno, ne ricorre il 105° anniversario di questo eccidio e lo slogan coniato, complice l’emergenza COVID-19, è stato «io resto a casa, ma non dimentico». Anche Henrikh Mkhitaryan, centrocampista armeno in forza alla Roma, invita i suoi connazionali ad evitare, per quest’anno alle commemorazioni pubbliche, senza, però, che questo equivalga, in alcun modo, a dimenticare il passato e la necessità di commemorarlo.
Non è fuori luogo, inoltre, ricordare il ruolo che ebbe, al tempo la Santa Sede: Benedetto XV inviò due lettere al sultano, ma anche intervento presso gli Alleati dei Turchi, come la Germania o l’Impero Austro-Ungarico (come scrive Hesemann, nel suo libro, basato su più di duemila pagine di documenti inediti, consultati nell’archivio segreto del Vaticano). Lo studioso rileva dunque la possibilità di poter fermare la strage, se ci fosse stato un intervento tedesco, come invece avvenne, con successo, per i coloni ebrei della Palestina, che furono risparmiati dall’intervento turco.
Finora, sono pochi i Paesi che hanno riconosciuto questo genocidio ed è giusto ricordarli, uno per uno: Argentina, Austria, Belgio, Bolivia, Brasile, Bulgaria, Canada, Cile, Cipro, Francia, Germania, Grecia, Italia, Libano, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Paraguay, Polonia, Russia, Slovacchia, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Uruguay, Vaticano, Venezuela.
Molti paesi non hanno il coraggio di utilizzare il termine genocidio, per paura di rovinare i rapporti con la Turchia, che, ancora, non ha riconosciuto tale episodio della propria storia.

«La negazione turca risuona dentro me come una minaccia silenziosa» dice Sonya Orfalian, scrittrice armena, mettendoci in guardia dall’insabbiamento della memoria storica, ma, al contempo confidando riponendo fiducia e speranza in “quei turchi che vorranno ricordare”. Parole che, oltre il dolore, si aprono alla speranza e alla fiducia nell’umanità, nutrendo e vivificando la possibilità del cambiamento, in sé e negli altri. Nella consapevolezza che un Paese non si limita mai alle proprie istituzioni e ai propri rappresentanti ufficiali, ma racchiude il tesoro più prezioso della propria umanità nel patrimonio di un popolo, composto di gente semplice, capace di grandi gesti quotidiani.
«Vengo dalla Turchia, ho la cittadinanza italiana, ma la mia identità è armena. I miei genitori emigrarono a Istanbul, dopo il Genocidio che aveva quasi completamente sterminato il nostro popolo durante gli anni della Prima Guerra Mondiale» racconta Baykar Sivazliyan (armenista e turcologo, attualmente docente universitario di lingua armena all’Università degli Studi di Milano). La sua è una delle tante storie possibili, la più famosa delle quali è forse quella di Charles Aznavour (pseudonimo di Shahnour Vaghinagh Aznavourian). Piccole storie di una storia più grande, nella storia del nome. Che, però, non va dimenticata.

Ricordare è importante, talvolta fondamentale. In questo caso, è necessario. Fare memoria è un mestiere mai facile. Lo sappiamo noi per primi: lo vediamo nelle divisioni che, ancora oggi, provoca la memoria del Ventennio e degli anni che seguirono. Anni confusi, infiammati dalle fazioni politiche, dal desiderio di rivalsa, rivincita, talvolta vendetta, che si andava a sommare a quello di libertà e democrazia.
Il risultato fu un Paese diviso, frammentato, ancorato a diverse narrazioni intorno ai fatti accaduti nel giro dei medesimi anni.
La memoria, del resto, non è mai neutrale. Non può esserlo. Perché, sulla memoria, influiscono i ricordi e le sensazioni personali, i racconti ascoltati (mai uguali per tutti), l’esperienza. Si tratta, inoltre, di un esercizio estremamente pratico: non basta riflettere, non basta pensare. Richiede concretezza. Richiede l’ausilio dei sensi. Dobbiamo vedere, toccare, annusare, ascoltare. Dobbiamo essere coinvolti in modo integrale, se vogliamo che la memoria non sia solo un esercizio intellettuale, spesso sterile e con pochi risultati concreti.
È necessario, infatti, poter sperimentare, per immedesimarsi e rendere l’esperienza del ricordo non solo un gesto spontaneo, ma un atto consapevole, con effetti di lunga durata, su noi stessi e sulla nostra vita futura.
D’altra parte, lo vediamo anche a livello personale. Non sempre, è facile ricordare. Non tutti i luoghi del nostro passato sono di facile accesso. Alcuni preferiamo renderli, anzi, del tutto inaccessibili. Perché la memoria, spesso, fa male. Il nostro avvocato interiore non sopporta quando veniamo messi alla berlina, quando gli errori vengono a galla, in tutto il loro estremo, inaccettabile, incomprensibile orrore.

Eppure, ricordare è indispensabile. Innanzitutto, perché significa guardare in faccia alla realtà, aderendovi. Acconsentire alla realtà è – infatti – sempre il primo passo per poterla, in seguito, metabolizzare e comprendere appieno. Senza questo primo passo, infatti, è impossibile pensare ad un cambiamento. Perché il cambiamento passa dal nostro sguardo che, se non attraversa la realtà (prima accolta), non potrà mai essere limpido e volto al futuro.

 

Fonte immagine: Istituto Euroarabo

 

Fonti:
Tg 5
Silvana De Mari – la psicologia del genocidio (YouTube)
Il Messaggero – genocidio armeno, Vaticano e Turchia
Internazionale: genocidio Armeni 1915
AGI – Charles Aznavour
Migrador Museum – Baykar Sivazliyan
Corriere dello Sport – Henrikh Mkhitaryan
Giorgio Perlasca.it – il genocidio armeno
Focus.it – il «grande male», la Turchia e gli armeni
Corriere, la nostra storia – il genocidio degli armeni
Zon.it – 24 aprile, il genocidio degli armeni 
Avvenire – Il ruolo di Papa Benedetto XV, nel libro di Hesemann 
Comunità Armena, Roma – riconoscimenti del genocidio
Comunità armena, lectio magistralis a Benevento (2019)


Libri per approfondire:
I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno, Siobhan Nash Marshall
Völkermord an den Armeniern (Il genocidio degli armeni), Michael Hesemann

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