la pasion de cristo

Quante volte, ogni anno, si ripeteva la stessa, paradossale scena! Gente che s’accalcava, avida ed impazienza, come se si trovasse innanzi ad un impareggiabile sciamano, davanti ad un banchetto. In genere, gestito da qualche anziano, volenteroso e benemerito parrocchiano. Sul banchetto, qualche ramo d’ulivo. Richiesti, a suon di spintoni, quasi si trattasse della panacea per ogni male. Poi, nella maggioranza dei casi, l’assembramento si scioglieva e quasi tutti tornavano nelle proprie case.
Lo confesso, qualche volta non ho potuto evitare di pensarlo: tutta quest’ansia, per un rametto benedetto. E sarebbero bastati cento metri per trovarsi a tu per Tu con il re dell’universo, umilmente racchiuso nel legno dorato di una chiesa della periferia, tanto quanto nella più sfarzosa delle chiese cattedrali, patrimonio dell’UNESCO.
Ora, ci è stato negato l’accesso al Pane. Questa Quaresima, iniziata sotto il segno della quarantena, ci ha sospinto nel deserto, verso l’essenziale. Abbiamo visto come l’uomo, staccato dai legami, rischi di perdere la speranza. Tutto si è scarnificato e la preghiera gli ha fatto eco, invitandoci ad eliminare ogni atto vanesio e decentratore dai Sacri Misteri.

 

La Prima Lettura, tratta dal capitolo 52 del libro di Isaia, ci invita a guardare al Servo sofferente, che abbiamo imparato ad identificare, nel Cristo che s’offre per noi. S’offre, senza nessuna garanzia. A perdere. Cioè: disposto a perdere. Ma con lo sguardo rivolto alla Vittoria.
Perché, anche velati di lacrime e di sangue, i Suoi occhi, come quelli di un rugbista sotto i colpi dell’(A)vversario, non hanno mai smesso di guardare avanti, sempre avanti, verso quella meta, la salvezza d’ogni uomo, che è la speranza e il desiderio che, da sempre, abita il cuore del Padre.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce / e si sazierà della sua conoscenza; / il giusto mio servo giustificherà molti, / egli si addosserà le loro iniquità. / Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha spogliato se stesso fino alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti / e intercedeva per i colpevoli (Is 53, 11 – 12)

Cristo è Messia capovolto: di fronte alla potenza di un regno terreno, Lui contrappone un regno con una potenza incomprensibile ai nostri occhi. Dietro la fragilità di un corpo battuto, si cela la fortezza di un animo che guarda con speranza oltre la Passione che sta vivendo, perché, mentre gli occhi di carne non vedono altro che il seme che muore, gettato nel terreno umido, gli occhi della fede anticipano le spighe che biondeggeranno nei campi, in vista della mietitura.
Cristo flagellato, Cristo che riceve gli sputi e gli insulti: quella sensazione di essere svuotati dentro, che si può provare solo quando hai la certezza di non valere nulla, per gli occhi di chi ti guarda. Perché l’uomo è una creatura pittoresca: lamenta la propria autonomia, eppure è sostanzialmente incapace di darsi un valore, senza guardare il proprio riflesso negli occhi dei propri simili. È dagli altri che impariamo come guardarci. Dai nostri genitori, inizialmente; poi, via via, tutte le altre persone che incrociamo nel cammino della vita. Se respiriamo fiducia, impariamo ad essere fiduciosi, audaci, intraprendenti; se respiriamo sospetto e diffidenza, facciamo fatica a prendere l’iniziativa e tendiamo a svalutare la nostra persona.
Cristo, vittima della malvagità umana, è emblema di tutte le vittime del mondo, di tutte le ingiustizie del mondo: quelle che vediamo e quelle che fingiamo di non vedere, perché valutiamo troppo distanti perché possano scomporre la nostra tranquillità.
Nel suo volto, piagato dal male, si condensa l’amore del Padre che, al contrario di noi, non si stanca di volgere il Proprio sguardo a colui che è stato trafitto, da noi.

Il brano del Vangelo ci offre uno squarcio di visuale sulla vita di Cristo. Siamo a sei giorni dalla Pasqua (ebraica), dopo la Resurrezione di Lazzaro. Gesù si trova ad un banchetto con Lazzaro redivivo, dove, senz’altro, è quest’ultimo a tenere banco (non è mica da tutti vedere la morte, salutarla e poi tornare nel mondo dei vivi).
La domanda serpeggiava, insistente: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?» si domandavano, a Gerusalemme. Il gossip correva, di bocca in bocca: il Maestro che ha resuscitato un morto, si “degnerà” di confondersi tra la folla pasquale?
Nel dubbio, il rabbi di Nazareth rimane fedele agli amici di sempre, a quella casa di Betania, che somiglia tanto al suo buen retiro, dove rinfrancare l’animo, rifocillare il corpo e ristorare le membra stanche, davanti a una tavola imbandita e qualche chiacchiera in buona compagnia. Questo ha sempre rappresentato la casa dei tre fratelli. Lo avrebbe rappresentato anche questa volta?
Sappiamo che, ormai, il cerchio, intorno a Lui, si stava stringendo, La sua predicazione si era fatta scomoda, più di qualcuno lo aveva segnalato ai farisei, che lo tenevano d’occhio.
Ecco, quindi, che il Maestro vuole assaporare ancora una volta, forse l’ultima, prima della Sua Passione, quella cordiale semplicità in cui si era sempre rifugiato. Anche in questa cornice, che ci suggerisce l’abitudine, sbarca l’inatteso, che passa per l’intuizione (tutta femminile) e per le mani di Maria, che decide di rompere un vaso di prezioso nardo, in onore di Gesù.
L’amore di Gesù è come il nardo che Maria apre per Lui. Uno spreco. Un’emanazione a perdere. Dal momento in cui il vasetto va in frantumi, l’aroma si allarga, occupa l’aria, com’è proprio di ogni gas, fino alla sua massima espansione possibile. La generosità è la sua cifra caratteristica. Fino alla prodigalità. Fino all’incomprensione, che è il motivo per cui un gesto semplice inonda, con il suo profumo, anche l’ignavia che ci caratterizza e che rischia di farci mettere sullo stesso piano, come «cosa tra le cose» anche l’attenzione da riservare alla gratitudine per un Dio, che s’è offerto al nostro sguardo, alla nostra incomprensione, alla nostra infedeltà.

 

È un gioco di sguardi: mentre Cristo non perde di vista la Resurrezione e lo sguardo del Padre, per poter oltrepassare la Passione e la Croce, noi, dal canto nostro, siamo chiamati a camminare, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (Eb 12, 2) e mettendo i nostri passi sulle Sue orme. Esercitando la pazienza, consapevoli che, se, per qualcuno, questa Pasqua sarà segnata dal dolore, probabilmente, la maggior parte di noi sarà chiamata ad un’altra Passione, quella delle pazienze.

 

La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo. Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati. Come un filo di lana tagliato dalle forbici, così noi dobbiamo essere separati. Come un giovane animale che viene sgozzato, così noi dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
È l’autobus che passa affollato;
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gli invitati che nostro marito porta in casa e quell’amico che, proprio lui, non viene;
È il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
È la voglia di tacere e il dover parlare,
È la voglia di parlare e la necessità di tacere;
È voler uscire quando si è chiusi
e rimanere in casa quando bisogna uscire;
È il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
È il disgusto della nostra parte quotidiana,
È il desiderio febbrile di tutto quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
È la passione delle pazienze.

(Madeleine Delbrêl)

 Una passione da non svalutare, quella delle pazienze, in un momento in cui gli spazi si fanno più stretti e la tolleranza e la capacità di perdono richiedono un upgrade, che è bene chiedere quale grazia particolare, all’avvicinarsi della Settimana Autentica.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella Domenica delle Palme (Is 52, 13 – 53,12; Eb 12, 1 – 3; Gv 11, 55 – 12, 11)


Fonte immagine: Static.vix.com

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