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La nube, di cui si parla nel brano veterotestamentario tratto dall’Esodo, è segno di contraddizione: salvezza per gli uni, dannazione per gli altri. Così capita, spesso, nella nostra vita.
Ci sono situazioni che possono essere occasioni. Gli Egiziani, col cuore indurito, hanno trovato al morte, perché non hanno colto la grandezza di Dio. Gli Ebrei sono finalmente riusciti a comprendere che Dio era “Emmanuele”: con loro, in mezzo a loro, in cerca di loro, anche e soprattutto durante i momenti più difficili.

«Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo». (Ef 2,8-10)
Le opere buone: sono lì per noi. Ci attendono. Da loro, dipende la nostra felicità. Perché il nostro cuore è inquieto, finché non ci disponiamo a farle. La sua natura è farle. Solo per la corruzione del peccato, ci siamo illusi che la felicità possa trovarsi altrove. La felicità è a portata di mano. Il nostro cuore cerca il bene. Ma il bene richiede concretezza. E la necessità di aprire gli occhi. Oggi, chi può avere bisogno di me? La realtà è che non c’è bisogno di cercare, è sufficiente un cuore pronto e disponibile e occhi disponibili a vedere la necessità. Spesso, è la pigrizia a frenare le nostre mani, la nostra voce, la nostra iniziativa.
Alle volte, ci siamo illusi che le opere buone siano una sorta di “lasciapassare” per l’aldilà. Quasi un pegno da pagare a Caronte. Questa visione rischia di lasciarci in carenza di ossigeno, già ora. Perché della bontà abbiamo bisogno ora, in questo momento più che mai. Obbligati a stare a distanza, come sempre accade, nella privazione, comprendiamo il valore. Se un abbraccio è da evitare, un sorriso, una parola buona, un gesto gentile rimane possibile. Senz’amore, iniziamo a costruire l’Inferno, già su questa terra, preambolo di una scelta che può condannarci, in seguito alla dannazione, di cui ora assaggiamo l’antipasto.

È impossibile negare che, qui, da un Nord assediato, il Vangelo di Lazzaro diventa pagina di attualità. Ancora più cocente a livello ecclesiale. Intere comunità (penso ai Saveriani della casa madre di Parma) falcidiate, parroci, collaboratori parrocchiali, frati e suore, morti in gran numero, in particolare nelle Diocesi di Bergamo e Brescia (ma anche la diocesi di Milano non è stata risparmiata). Praticamente chiunque, anche se non toccato direttamente negli affetti, ha potuto, in questi giorni dire, di almeno un necrologio “lo conoscevo”. E, se è vero che la morte tocca tutti, perché tutti siamo mortali, quando ti passa vicino, fa sempre un effetto diverso.
Succede persino a Cristo. È in viaggio, sta predicando, gli dicono: «il tuo amico Lazzaro sta male». All’inizio non fa nulla, anzi, sembra proseguire, come se niente fosse, in quello che stava facendo e questo, ad una prima lettura, ci stranisce sempre. Ci viene da dirGli: «Ma come, Gesù, hai guarito il paralitico, l’emorroissa, il servo del centurione.. ora che si tratta di un tuo amico, nella cui casa hai mangiato tante volte, che ti ha sempre offerto ospitalità, tu non fai nulla?». Una reazione simile, del resto, l’hanno anche i discepoli che, tuttavia, lo seguono, quando, finalmente, si decide a dirigersi verso Betania.
«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà» (Gv 11, 21-22) dice Marta, che Gli corre incontro. Maria, nel frattempo, rimane in casa. Maria lo ascoltava assorta, mentre Marta spicciava casa, come direbbero a Roma. Anche di fronte alla morte del fratello, le due sorelle mettono in campo due reazioni differenti. Vivono sotto lo stesso tetto, condividono lo stesso sangue, ma sono profondamente differenti. Marta, rinnova la sua fiducia, con una punta di rimprovero. È fiducia, innanzitutto, nell’Amico. La Sua presenza è sollievo a prescindere perché, in Lui, si condensano ricordi di giorni e momenti felici, spensierati, conviviali. Ora è qui. Tanto basta perché, nel suo cuore, il tumulto si plachi. Perché, più grande della paura della morte, c’è quella della solitudine, il sentirsi abbandonati e soli, di fronte alle difficoltà. Trovare un cuore che si fa fratello e padre, nella sofferenza, è già un sollievo. Avere la consapevolezza che questo cuore dimori nel Figlio di Dio, che ha deciso di farsi Dono per tutti noi, fa sì che la nostra speranza sia più che una bella parola, ma diventi Parola che salva.
Alla Resurrezione “nell’ultimo giorno”, secondo la fede ebraica, Cristo contrappone una fede più radicale, ambiziosa persino. Io sono la Risurrezione. Marta si trova davanti il motivo stesso della proprio speranza. Ed allora, sotterrata ogni divergenza e difformità caratteriale, non può che correre ad avvertire la sorella.
Anche Maria, allora, si alza, in fretta, senza dire una parola a chi era con lei. Anche Maria rinfaccia a Cristo l’assenza “colpevole” e il Signore, di fronte a cocenti lacrime di donna, commosse per la morte del fratello, accusa il colpo. S’è incarnato in un corpo d’uomo: ha i sentito i morsi della fame, il freddo causato dal gelo, al solitudine, il tradimento. Come non pensare che abbia provato, sulla propria pelle, anche il dolore intenso e lo sgomento, di fronte alla perdita di un amico? Non basta essere Dio, per evitare il dolore. Rivestitosi della carne, non ha potuto evitare di sperimentarlo.
Gesù vuole vedere quel morto, lo fa tirare fuori dal sepolcro, nonostante, come gli fa notare Marta, manda già cattivo odore. Cristo non si arrende neppure di fronte a questo. Non lo ferma una pietra da rotolare. Non il cattivo odore. Né le bende. La salvezza che ci porta va oltre. E se ciò è successo 2000 anni fa, sono convinta che accade ancora.

«Lazzaro, vieni fuori!». Sono i medici, che benedicono i moribondi, quando il prete non farebbe a tempo ad arrivare. Sono i sacerdoti che, accantonata la parrocchia, si rimettono il camice abbandonato anni fa, per portare sollievo all’umanità sofferente. Sono quelle suore che continuano il proprio servizio, tra le corsie di un ospedale, nel silenzio di una presenza silenziosa e discreta.
In questi giorni, in cui la morte ci passa accanto, vicina come non mai, questa Parola è come la ruvida carezza della mano dei contadini, che ci garantisce che, nonostante la sofferenza attuale, che nessuno può negare né evitare, Cristo ha sconfitto la morte. Questa consapevolezza fa diventare la Speranza della Resurrezione un pegno concreto a cui guardare in ogni istante della nostra vita, a maggior ragione quando fatichiamo a trovare un senso al nostro quotidiano esistere ed aneliamo di assaporare quell’Amore infinito, che solo in Cristo trova la propria sorgente.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella V domenica di Quaresima, anno A, “domenica di Lazzaro” (Es 14, 15-31; Ef 2, 4-10; Gv 11, 1-53)


 Fonte immagine: Romasette

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