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“In quei giorni, il Signore disse a Samuele.”
L’intreccio di vicende tra Samuele, Saul e Davide è uno dei capitoli più avventurosi dell’Antico Testamento. Ci viene descritto un mondo lontano, un’epoca in cui leggende, racconti pedagogici e avvenimenti reali sono intessuti così stretti che è molto difficile stabilire con certezza dove finiscano le une ed inizino gli altri. Saul, primo re di Israele, viene scelto nonostante il parere contrario di Dio e del suo profeta, Samuele. Che senso ha chiedere un re umano, mortale e fallace, se c’è un re divino che vive per prendersi cura delle proprie creature? A nulla valgono le proteste e la scelta ricade su Saul. Bello, giovane, alto e forte: secondo la logica umana è il re perfetto. Non lo è invece secondo la logica divina, ed è anche per questo che si arriverà al punto in cui Dio lo rigetta.
Non possiedo la famigerata sfera di cristallo, eppure prevedo con ampia certezza la maggior parte delle lamentele: se Dio è davvero una divinità che non tratta le creature come pedine su una scacchiera, perché tutto in questo brano sembra portare in questa direzione poco piacevole? Perché qui Dio muove i destini dei personaggi, li innalza e poi li fa precipitare senza dare troppe spiegazioni? Perfino il profeta Samuele sembra confuso ed è piuttosto restio a lasciar andare Saul come re.
La chiave per rispondere a molte domande non serve inventarla con riflessioni che si arrampicano sugli specchi: ci è sufficiente un piccolo tuffo nella lingua ebraica per scoprire quel mondo sommerso che ci aiuterà a conoscere meglio quello in superficie.
“Ti mando da Iesse il Betlemmita…”
Il Dio della Bibbia è un Dio-fionda. Un po’ come quella terra-terra di Gianburrasca: legnetto, elastico, sasso e… lancio! Invia, manda, fa uscire… le persone che sceglie non sono destinate all’immobilità – in tutti i sensi – ma compiono sempre grandi viaggi. Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Mosè… e poi Giovanni Battista, Simon-Pietro, Paolo. La fede in Dio è una casa sulla roccia che però sa riempire di vento le sue vele.
E Samuele va. Va da qualcuno che non è un perfetto sconosciuto per il lettore biblico. Nipote di Rut, la straniera, la moabita, la donna che fece della fedeltà alla suocera e della fede in un Dio conosciuto da poco la salvezza di Israele. Insieme alla storia di Giuseppe venduto dai fratelli, quella di Rut ha la particolarità di non vedere mai in scena il personaggio di Dio. Nominato, sì, rimane perennemente dietro le quinte e mai interferisce con le azioni dei protagonisti. Nell’ancorarsi alla stirpe di Rut Dio abbraccia la storia degli uomini e delle loro vicissitudini, scende talmente tanto in profondità in loro che quasi diventa invisibile. Ecco allora che il Dio che sembra muovere i destini delle sue creature, in realtà non le tratta come burattini, ma si fa accanto a loro.
“… Perché mi sono scelto tra i suoi figli un re.” Questa la traduzione che siamo soliti ascoltare. Ovvio che lasci perplessi: sembra che la divinità agisca fregandosene della libertà umana. Ma invece il cuore originario della frase è questo: “Perché io ho visto tra i suoi figli un re per me.”
Dio vede quello che gli uomini non vedono. E’ uno sguardo lungo, il suo. E’ un vedere lontano. Il re è già alla presenza di tutti, ma nessuno ancora se n’è accorto. Vi suona familiare con qualcun altro di nostra conoscenza, vero? Se sì, siete sulla buona strada.
“Quando [Samuele] fu entrato, egli vide Eliàb e disse: – E’ davanti al Signore il suo consacrato?”
Anche Samuele guarda. Guarda ma non vede. Cerca un re, anzi no, cerca un “consacrato”, in ebraico mešyhō (meshyhò). Ovvero Messia. Unto con l’olio regale, segno di elezione divina. Vi ri-suona familiare, giusto?
Eccolo qui, il cuore pulsante del brano. L’uomo cerca un messia visibile, Dio invece ha già inviato un messia che gli altri non sanno vedere. La storia si ripeterà qualche centinaio di anni più tardi, quando Israele si metterà a cercare il Messia guardando dovunque, tranne che in direzione di un Rabbi falegname venuto da Nazareth. Sarà invece un cieco dalla nascita colui che avrà il privilegio di vederlo e riconoscerlo (Giovanni 1,9-41).
“Dio disse a Samuele: – Non guardare alla sua apparenza, né alla grandezza della sua statura, perché io l’ho scartato. Non [vedo] quello che vede l’uomo. L’uomo vede con gli occhi, Dio vede con/al il cuore.”
Precisiamo subito: Dio scarta Eliàb come re, non come persona in generale. Il suo metterlo da parte non diminuisce di un atomo la cura che egli ha per quell’uomo non considerato adatto per essere un consacrato, ma pur sempre amato. Eliàb è già il primogenito, è bello e alto: in parole povere, ha già con sé tutto ciò che gli consente di essere ammirato da tutti. Ma il Dio della Bibbia non è uno a cui “piace vincere facile”, con tanto di motivetto suonato in sottofondo. Cerca dove gli altri non guardano. E vede quel che il resto del mondo non degna nemmeno di mezzo sguardo.
“Dio vede con/al il cuore.” Cinque/sei parole in italiano, tre in ebraico. All’interno un universo sconfinato di amore e cura.
“Al cuore”: Dio non si limita all’apparenza, ma sa tuffarsi fin dentro il cuore dell’uomo e osservarne gli angolini più reconditi. Cosa cerca? Tutto il bello che è dentro di noi. Anche se da fuori non si vede. Anche se gli altri hanno già lasciato perdere. Lui no. Cerca come un esploratore cerca il suo tesoro nascosto.
“Con il cuore”: è l’immagine di una divinità che volutamente chiude gli occhi per non soffermarsi sull’apparenza. E’ l’immagine dell’innamorato che si protende verso chi ama non con la vista, ma con tutto il proprio essere. Nel cuore per gli antichi non c’erano solo i sentimenti, ma c’erano anche l’intelletto, la capacità di discernimento, la forza d’animo.
Allora tutto si spiega, ecco lo sbrogliarsi della matassa. Dio ha rigettato Saul come re, non come sua creatura, perché si è tuffato nel suo cuore ed ha visto che non era più adatto per essere il suo consacrato. Di contro, ha saputo vedere un re in un giovane pastore di nome Davide, ignorato da tutti e quasi anche dalla sua stessa famiglia.

 

Domenica 22 marzo IV di Quaresima. Prima lettura: 1 Sam 16, 1.4. 6-7. 10-13

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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