Se qualcuno deve correggerci, è bene (anzitutto per lui!), che sia qualcuno che ci stia simpatico. Sarà molto più probabile che gli daremo ascolto. Se dobbiamo ricevere un consiglio, un incoraggiamento, un sostegno perché siamo più felici, è opportuno che venga da qualcuno che merita stima e fiducia, che si è – insomma – dimostrato affidabile. Perché nulla è fastidioso come chi ci coglie in fallo. Soprattutto, quando sappiamo benissimo che ha ragione.
Solo nella libertà, possiamo cogliere i Dieci Comandamenti come un invito ad una reale libertà, per il dispiegamento della nostra autentica felicità, invece che un motivo di oppressione o di controllo sulla nostra vita.
Ecco perché troviamo questa bellissima premessa a quelli che siamo abituati a chiamare i “dieci comandamenti”:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2)
Solo superficialmente, potrebbe sembrare una “presentazione”. Piuttosto, si tratta di un ricordo, indispensabile per poter entrare in relazione con Chi pronuncia le Dieci Parole, su cui si fonda l’Antica Alleanza. Un patto può essere stipulato solo ed unicamente tra liberi, perché richiede la reciproca accoglienza delle condizioni dichiarate. Per cui, Dio propone all’uomo – al popolo d’Israele – il suo patto, solo dopo averlo portato a sperimentare la libertà.
È solo nel ricordo (una realtà riportata al nostro cuore) che è davvero realistico pensare di recepire la proposta come una Parola affidabile, che interroga la mia vita e le consente di diventare migliore.
Al di fuori della relazione con Dio, è impensabile rispettare i comandamenti. Rischiano di essere “contenitori” vuoti, norme senz’anima, o – tutt’al più – consigli di massima, non più densi di significato di un «Copriti, quando fa freddo».
Il popolo percepisce tutto questo, perché si avverte un senso di timore, nella supplica finale: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!» (Es 20, 19). Si scorge, in questo atteggiamento, quello stesso timore reverenziale, che ci coglie quando percepiamo la forza di un sentimento, da cui ci sentiamo esclusi. Se vediamo due amici molto affiatati tra loro, temiamo quasi di essere di troppo e, magari, tendiamo a non interloquire in modo diretto con l’amico del nostro amico. L’istinto ci suggerisce di fare un rispettoso passo indietro.
Probabilmente, qui c’è qualcosa in più. Quel timor di Dio, spesso equivocato, che è dono dello Spirito Santo. «Essere “senza timor di Dio” equivale a mettersi al suo posto, a sentirsi padroni del bene e del male, della vita e della morte. Invece chi teme Dio avverte in sé la sicurezza che ha il bambino in braccio a sua madre (cfr Sal 130,2): chi teme Dio è tranquillo anche in mezzo alle tempeste, perché Dio, come Gesù ci ha rivelato, è Padre pieno di misericordia e di bontà.» (Benedetto XVI, Angelus del 22 giugno 2008). L’immagine del Salmo può aiutarci a correggere una distorta percezione di Dio che a volte ci può prendere: Dio si fa trovare, da Chi lo ricerca. Oggi è il tempo propizio. Può diventarlo, se scegliamo di vivere intensamente questa Quaresima- quarantena. Ogni tempo, da krónos, può diventare kairós : Cristo ha saputo essere obbediente “fino alla morte”. A noi, forse, è chiesto, di sfruttare la creatività, per non perdere l’occasione che ci viene incontro nel nostro oggi. Che, magari, non ha le forme della tradizione. Ma non per questo non può diventare una forma di conversione, per la ricerca di una piena intimità con Dio e coi fratelli.
La lettera agli Efesini, che la Liturgia ci propone nella II Domenica di Quaresima, è considerata parte degli “scritti della prigionia” di San Paolo, che possiamo datare tra il 58 ed il 60 d.C. È una lettera di gratitudine: Paolo guarda alla sua comunità ed è lieto di vedere la loro sollecitudine nella carità, in soccorso dei confratelli che sono nel bisogno. Colpisce che, proprio durante un momento di difficoltà, questi “perda tempo” con questa comunità che pare – tutto sommato – ben avviata. Eppure, non perde occasione, perché la gratitudine dell’apostolo converga a Gesù, attraverso cui riceviamo ogni grazia e che è il vero “tesoro” da custodire (e testimoniare).
«Portiamo questo tesoro in vasi di coccio, affinché appaia che la straordinaria sua forza proviene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7).
Il tentativo di corrispondenza all’amore di Dio, anche quando è generoso, spesso rischia di essere goffo, fuori-fase, sbilenco, non ben incanalato secondo il cuore di Cristo. Non importa, ama, avrebbe detto Madre Teresa.
Del resto, il Vangelo affronta uno dei brani più impegnativi, belli e significativi, che si ripete ad ogni Quaresima: quello della Samaritana. Un incontro, al pozzo. Uno sconosciuto che ti conosce meglio della gente che ti addita, in paese; meglio, dei mariti che hai avuto; meglio di te stessa. Un incontro, che capisci subito che capovolgerà la tua vita. E non solo la tua.
Era un mezzogiorno caldo e assolato, nella città di Sicar. Non il momento migliore per raccogliere l’acqua. A meno che… tu voglia evitare ogni sguardo. Era quello, probabilmente, l’obiettivo di quella donna che raggiunge il Maestro al pozzo e che, ignara di chi sia, è probabilmente seccata di incontrare qualcuno, ma, sulle prime, probabilmente rasserenata dal fatto che sia “di fuori”. Non sa nulla di me, deve aver pensato. E, per donne come lei, quel pensiero è un sollievo. Perché chi non conosce, non può pensare male, non può giudicare, non può mettere alla berlina con uno sguardo. Ignora che, nel Suo sguardo, è possibile trovare vita, pace, salvezza. Ignora che, nel Suo cuore, c’è spazio per un amore infinito, prodigo di perdono, ma consapevole di giustizia e perfetto nella carità.
Quasi senza accorgersene, quella donna che non voleva incontrare nessuno, si ritrova a discutere animatamente con quello Sconosciuto che pare conoscerla meglio di chiunque altro. E non parlano delle condizioni meteo, dell’annata, dell’oppressione romana. Parlano di spiritualità e vita eterna. Un tabù, per una donna, dell’epoca. A maggior ragione, per donne come lei. Forse per la prima volta, si sente accolta, ascoltata, capita. Fino alla fatidica domanda, quella che la mette con le spalle al muro: «Va’ a chiamare tuo marito!».
Che rispondere? Ti sarai domandata, attanagliata dal dubbio che, sulla base di questa risposta, il dialogo avrebbe potuto prendere una piega imprevista, avrebbe potuto deragliare in modo irrecuperabile, riducendovi, di nuovo, a quei “perfetti sconosciuti”, che eravate, prima di quell’incontro, al pozzo.
«Non ho marito», decidi infine di rispondere, utilizzando la forza disarmante della Verità. Che risulta vincente, perché lo Straniero apprezza questa tua sincerità e Lo spinge a rivelarsi per quello che è davvero: il Messia.
Gesù decide di rompere il “segreto messianico” proprio con te, samaritana sconosciuta, che, al pozzo per prendere dell’acqua in solitudine, te ne vai, abbandonando lì l’anfora che ti aveva spinto a sfidare la calura del sole che picchia, sulla Samaria. Proprio con te, da tutti considerata poco di buono. Forse, ancora adesso, proviamo un po’ di invidia, nei tuoi confronti?
Soprattutto, però, una domanda, dovrebbe sorgerci nel cuore: cos’ha visto lo sguardo di Gesù, quando si è posato su di te?
Perché Lui non ha rinunciato alla Verità. Ti ha chiesto di tuo marito. Ha voluto che tu potessi stare, con coraggio, innanzi alle tue scelte. Eppure, deve avere visto in te qualcosa. Una persona che non si accontenta. Che magari sbaglia, ma continua a cercare. In un certo senso, forse, Gesù è rimasto ammirato da questa tenacia di ripartire, da questa voglia di capire, che si cela dietro una donna che non nasconde di aver commesso degli sbagli, delle scelte su cui aveva scommesso, ma che non si sono dimostrate vincenti.
L’ultima ri-partenza avviene proprio alla congiuntura di quel pozzo: la gioia di quell’incontro ti fa dimenticare la prudenza, la necessità di nasconderti, la vergogna, la paura del giudizio altrui. Quell’uomo ha guardato a te in modo diverso da chiunque altro. È questo sguardo che ha risvegliato in te la passione per la vita, per la ricerca.
Anche noi siamo chiamati a cercare di incrociare, nel Crocifisso, quello sguardo capace di spronarci verso nuove ri-partenze, oltre i nostri limiti, le nostre mancanza, le nostre debolezze. Essere migliori è sempre possibile. A partire da oggi.
Rif: letture festive ambrosiane, nella seconda domenica di Quaresima, anno A (Esodo 20, 2-20; Efesini 1, 15-23; Giovanni 4, 5-42)
Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
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