In una lettera, J.R.R.Tolkien scrisse a C.S.Lewis, dal quale attendeva di essere perdonato:
Dio ti benedica per la tua bontà. E […] sii così generoso da regalarmi i dolori che ti ho causato, cosicché io possa condividere tutto ciò che di positivo ne verrà fuori. Non so se riesco a spiegarmi. […]Che cosa accade quando il colpevole è genuinamente pentito, ma chi ha sofferto a causa sua è così profondamente risentito da non concedere il perdono? È un pensiero tanto terribile, da dissuadere chiunque dal correre il rischio di causare inutilmente il male.
Questo stralcio mi colpisce molto e credo possa essere la chiave d’accesso per affrontare molte delle dinamiche relazionali che viviamo quotidianamente in aula, in corridoio o in sala insegnanti. Volano spesso parole taglienti come spade; alcune esplicite, molte, per lo più taciute. Giudizi implacabili verso colleghi più o meno empatici o competenti, oppure diretti verso alunni provocanti o provocatori. A volte, siamo incapaci di vedere ciò che accade o intuire ciò che vive chi si trova nel banco di fronte a noi. Forse, nemmeno ci proviamo, perché subissati di richieste burocratiche, di verifiche da correggere e di tanta vita “privata” che riempie i nostri pensieri. In un mondo lavorativo prettamente educativo, com’è il mondo della scuola, centrato proprio sulla persona, noi professori rischiamo di arrivare ad essere motivo di “scandalo” per i nostri alunni o per i nostri colleghi in ambito relazionale? Scandalo o, tradotto meglio, inciampo. In che modo ostacoliamo o sabotiamo la possibilità di far crescere queste nostre relazioni? Quali muri alziamo, spesso inconsapevolmente, che non ci permettono di crescere come “corpo docenti” e come adulti in grado di prendersi cura dei propri alunni attraverso la didattica e l’esperienza? Capita sovente che proprio a causa dei nostri “scandali” reciproci venga meno la comunicazione tra docenti, si insinui una sorta di cecità reciproca tra colleghi e, a cascata, verso i nostri alunni. Niente di cui scandalizzarsi, appunto! Mi provoca una questione a questo punto: il perdono e la condivisione sono materie che andrebbero o potrebbero essere insegnate a scuola? Sono prerogativa solo della vita privata – esterna all’ambito professionale – o di chiunque abbia una certa sensibilità valoriale, oppure rispecchiano l’arte dell’amore che accompagna ciascuno nelle proprie giornate?
L’estratto della lettera di Tolkien racconta la fatica del “colpevole” a chiedere scusa, a riconoscersi fallibile, colpevole, motivo e causa dello scandalo, in alcuni casi, omicida con le parole o con i fatti. Ma non toglie la reciprocità della relazione. C’è anche la fatica e la decisione di donare il perdono, di fare un passo verso chi ci ha feriti e di far tacere l’orgoglio. Quanto questo moto profondo, delicato e personale, potrebbe influire anche sul nostro operato di insegnanti? Migliorerebbe il clima in molti consigli di classe? Che rivoluzione si accenderebbe se riconoscessimo nel volto dei nostri colleghi e dei nostri alunni quei “piccoli” che Gesù pone continuamente al centro del Suo cuore! Potremmo, addirittura, considerarci non più “inciampi” uno per l’altro, bensì, strumenti attraverso cui possa arrivare, anche a scuola, la Misericordia di Dio.
Il perdono potrebbe rivelarsi un’antica, quanto moderna, arma educativa, generatrice di progresso e novità?
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