E’ venuto a Padova per fare festa il Presidente della Repubblica. E’ venuto per fare festa alla carità e, festeggiandola, per confermare ciò che in Veneto è evidenza, oltrechè verità: è stupendo che nessuno abbia bisogno di aspettare un solo attimo prima di iniziare a migliorare il mondo. Arrivando, Mattarella ha aperto l’anno di “Padova Capitale Europea del Volontariato 2020”, una sorta di festival della gratuità che ricuce l’Italia. «Cos’è il volontariato?» ha chiesto una maestra, nella circostanza, ai suoi alunni. Una di loro, a bruciapelo: «E’ fare qualcosa e non poter essere pagati perchè quello che hai fatto non ha valore». Che sia già capitato, a questa bambina, ciò che capita a tanti in difficoltà? Che puoi ignorare le parole di chi ti ha soccorso, scordarti il bene ricevuto ma non riuscirai a cancellare come ti hanno fatto sentire quelle persone nell’attimo in cui si sono messe a tua disposizione.
Da fallito a signore, in un battibaleno.
I saluti, in queste occasioni, sono di rito: preparati, ricamati, sofisticati. «Mi ha colpito una cosa: che il Vescovo non abbia fatto il suo saluto» mi ha detto un signore all’uscita della Fiera. Ignaro (mi ostino a rimanerlo) delle logiche formali, penso che quel suo silenzio, cercato o subito, sia stata l’accoglienza più onesta della Chiesa di Padova al Presidente e al mondo intero che guardava alla città. Perchè il Vescovo ha fatto silenzio, ma a parlare è stata la storia della Chiesa al cui timone c’è lui: «Citare solo alcuni rischia di essere insufficiente» – ha detto il Presidente nel suo discorso, quasi a non voler citare nessuno per evitare inutili classifiche. Poi, però, gli è stato impossibile non farlo: «Ma sono nomi importanti: CUAMM, don Luigi Mazzucato, don Giovanni Nervo, don Giuseppe Pasini, Francesco Canova, padre Placido Cortese». Gente della chiesa-nostra che ha vissuto facendo del bene a qualcuno che non avrebbe mai potuto ripagarli. Il vescovo Claudio stava in prima fila, in ascolto. Quelle storie, citate da altri, sono state il saluto (non istituzionale) della Diocesi di Padova. L’istituzione adora salutare amplificando i suoi successi che, magari, non sono tali per tutti: “Parlo a nome di tutti” è il mantra giustificativo. C’è anche chi, invece di parlare a nome di tutti, lascia che sia la storia a dire se la carità fatta è stata irrilevante o era solo un’illusione di chi l’ha pensata. Perchè tutti, nell’attimo in cui facciamo qualcosa di buono, ci sentiamo una sorta di divinità del bene. Per capire, però, se siamo stati incisivi davvero, è necessario che siano altri a dircelo, senza chiederglielo.
E’ la storia a dire se abbiamo servito i poveri o ci siamo serviti dei poveri.
Il vescovo ha fatto silenzio, però c’era. L’esserci è stato il suo saluto: «Questa carità non umiliava il beneficato, non lo imprigionava nelle catene della gratitudine – scrive Antoine de Saint-Exupéry -, perchè non era a lui, ma a Dio che il dono veniva dedicato». Col suo silenzio, ha corso il rischio che la storia ci ignorasse: è l’azzardo di chi sogna di educare nella libertà. Per fare intuire, a chi vorrà, quant’è pesante l’eredità della carità della Chiesa di Padova. E quanto sia difficile portarla avanti senza farsi risucchiare da essa ma nemmeno senza poterla ignorare: nel primo caso sarebbe servilismo, nell’altro arroganza. E’ stato di classe il suo saluto silenzioso: in una stagione sfiancata da scandali, dicerie e sciatteria in materia di preti-ed-eventuali, ha lasciato parlare la storia. Che, mettendoci la faccia, ha raccontato al mondo che, sotto-sotto, la terra della carità diocesana è di una bontà silente e decisiva.
Senza bisogno di nessun palco.
(da Il Mattino di Padova, 8 febbraio 2020)