Pensando alla festa della Famiglia, che celebriamo questa domenica, in tutta l’area ambrosiana, mi è inevitabile correre, con il ricordo, ad un’istantanea che risale a qualche anno fa e che ha interessato proprio il nostro territorio, a giugno del 2012:
Bambini che razzolano nel prato, coi jeans verdi d’erba, le manine impiastricciate e la faccia furbetta. I più piccini sono in braccio alla mamma, ad approfittare di una tenerezza in più. E quando inizia la Messa, non tutti sono attenti, qualcuno continua imperterrito a giocare con le bottiglie d’acqua vuote… io sono sicura che Gesù stesso ne avrebbe sorriso. Dei loro giochi, dei loro pensieri, dei loro sorrisi. Dei loro rimbrotti ai grandi: “Adesso Monti piange: il Papa lo sta sgridando!”. Eh sì, perché… chi l’ha detto che i bambini non capiscono?
E una festa in famiglia è sempre una festa per tutti: grandi e piccini, adulti, anziani, ragazzi e bambini. Disabili e superabili, vedenti e non vedenti: per ognuno era possibile, nonostante i deficit personali percepire suoni, immagini, sensazioni, emozioni. Una festa di colori, di musica, di cordialità, di fiducia. Un milione di persone sconosciute, da centinaia di paesi del mondo, unite sullo stesso suolo, che si stringono la mano, si salutano, cantano, pregano.
Tutti insieme. Anche se diversi, anche se in contrasto. Ma convinti che una società in cui tutti si sento fratelli sarà dominata dall’Amore, e sarà sicuramente migliore di quella comandata dal denaro, dal potere, dalla fame di successo.
Un mondo in cui la vita, la famiglia, i più deboli e fragili siano difesi è possibile. A patto che ci si impegni tutti, con convinzione, per il bene comune.
A patto che anche i politici si sveglino e considerino la ricchezza fondamentale che porta la famiglia alla società civile: vita, valori, crescita. Saranno disposti?
Vedremo… intanto… il nostro sì a tutto questo e il grazie a chi s’impegna a favorirlo c’è stato.
Come al solito, per la rivoluzione, bisogna sempre partire da se stessi!
Pensando alla famiglia, se siamo onesti, la prima parola che ci viene in mente è: fastidio.
Danno fastidio i bambini a Messa, perché sono troppo chiassosi: «Perché non se ne stanno a casa? Disturbano!».
Danno fastidio gli adolescenti, perché hanno la lingua lunga, la risposta pronta e non ne vogliono sapere di stare allineati e in ordine, come li vorremmo noi.
Danno fastidio gli anziani, così come gli ammalati. Perché? Per tanti motivi. Nel profondo, quello reale è che ci ricordano quella fragilità, che è di ciascuno di noi. Perché ciascuno di noi ospita, dentro di sé, un lato con su scritto «Fragile! Maneggiare con cura». L’unica differenza è che in alcuni riveste un’area più ampia, in altri non emerge. Ma, non per questo, non c’è.
Danno fastidio le riunioni di famiglia, in cui ci troviamo a dover sopportare anche i parenti più distanti per grado, più noiosi per argomenti, più anziani per età, più invadenti per indole.
Eppure, la famiglia è la prima scuola, proprio per i motivi appena esposti. Ci insegna cosa sia la comunità. Ci mostra che ogni persona ha diritto di essere non solo rispettata, ma addirittura amata esattamente com’è (anche e, anzi, soprattutto, per quegli aspetti che risultano più difficili da digerire). È in famiglia che impariamo a trasformare il nostro fastidio in un’opportunità e che comprendiamo che, alle volte, siamo noi a creare fastidio.
È in famiglia che avviene l’incontro-scontro tra generazioni, prima ancora che in ogni altro luogo. Così come è in famiglia che impariamo cosa significhi perdonare e quanto sia difficile. È in famiglia che avviene l’amore più difficile: tra persone che non abbiamo scelto, che magari non ci piacciono, ma con cui condividiamo spazi, vita, tempi.
Ognuno di noi nasce in una famiglia, che non si è scelta, ma che è chiamato ad amare. Di più: persino Dio sceglie di nascere in una famiglia, quando decide di incarnarsi, facendosi uomo nel Natale.
Il Vangelo di oggi ci propone una lettura impegnativa della famiglia. È un ritratto impietoso della Sacra Famiglia, in tutta la sua fragilità. Abbiamo la Madonna, san Giuseppe e Gesù preadolescente (secondo i canoni attuali): nonostante i tre protagonisti siano tutti santi, i genitori si perdono il figlio e il figlio sfugge al controllo genitoriale per ben tre giorni.
C’è da sottolineare un aspetto culturale. A dodici anni, nella cultura ebraica, il ragazzo diventa adulto: indossa i tefillin durante la preghiera ed è considerato maturo nella fede dopo la cerimonia di Bar Mitzvah che lo sancisce. Quindi, tecnicamente, Gesù non è più un bambino. Come abitudine dell’epoca, ma ancora a lungo da noi, il ragazzo rimane sottomesso ai genitori, abitando nella loro casa, fino a che non si sposa. E, dopo il matrimonio, molto spesso, i fratelli prendono casa vicino tra loro, a volte, letteralmente, “una sopra l’altra”. È usanza che si perpetua ancora adesso, nelle terre d’Israele.
Il brano evangelico di questa fuga, sembra, del resto, un fulmine a ciel sereno, indicatore di un futuro particolare che attende questo ragazzino («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» – Lc 2,49). Ma si tratta di un episodio in una vita, per il resto, tranquilla, come sancisce il finale: scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso (Lc 2, 50).
È il penultimo versetto a lasciarci una conclusione su cui riflettere: sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore (Lc 2,51). Sappiamo che Luca scrive il suo vangelo, soprattutto grazie ai colloqui con la Madre. Sappiamo che Maria Santissima è invocata da tutti i cristiani e guardata con venerazione anche da molti musulmani. Viene da domandarsi come si spieghi la sua santità. Come possiamo guardare a lei come ad un esempio?
Quanti misteri si celano dentro agli occhi dei nostri figli. Quante cose non conosciamo di chi abita accanto a noi, delle persone con cui condividiamo il desco familiare?
C’è un silenzio, che è in grado di dare frutto, solo se sappiamo rinunciare a comprendere tutto e subito. C’è un tempo per comprendere e un tempo in cui dobbiamo accettare di contemplare il mistero e attendere che il mistero possa svelarsi nella propria pienezza.
Saper leggere, nelle pieghe della storia, l’adoperarsi della mano di Dio è profezia. Saper attendere di poterLo vedere all’opera è presupposto di santità.
Rif: letture festive ambrosiane, nella Festa della Sacra Famiglia
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