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La prima lettura ci accoglie con una situazione di titubanza, confusione, dubbio, sofferenza del popolo d’Israele. Ha lasciato l’Egitto, diretto verso la Terra Promesso, ma soffre per la mancanza d’acqua e ripensa all’abbondanza di risorse che ha lasciato, pur avendo riacquistato il valore incalcolabile della libertà.

In quei giorni. Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato.
Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.
Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro.
(Numeri 20, 2. 6-13)

La conclusione del racconto, a chi legga con troppa fretta o poca attenzione, rischia di lasciare con l’amaro in bocca, oltre che un certo sconcerto: perché Dio decide di punire Mosè ed Aronne? Perché non ne è soddisfatto? Non hanno fatto come era stato loro ordinato?
Un dubbio simile è però presto dissipato, prestando attenzione ai dettagli. La mancanza di fede è ascrivibile al fatto che i due mettano avanti alla Parola di Dio la necessità di discolparsi dinnanzi al popolo di Dio, quasi che sia loro (e non – com’è! – di Dio) l’iniziativa di uscire dall’Egitto.
Non solo. Non si limitano ad eseguire il comando, ma Mosé mostra la propria insicurezza utilizzando il bastone (quello che aveva utilizzato nel dialogo con Faraone) come un talismano e battendolo, per ben due volte, contro la roccia, quasi che questa stessa fosse la condizione, affinché la superficie scaturisse acqua.
È interessante riflettere su come anche personaggi fondamentali, quali Mosé e Aronne, abbiano avuto incertezze e ci somiglino. Perché anche noi chiediamo aiuto a Dio, ma facciamo fatica a rinunciare all’orgoglio, alla vanagloria ed amiamo (fino a fare fatica ad ammetterlo) che i nostri meriti ci siano pienamente riconosciuti. Con il rischio che, in realtà, non ci affidiamo mai del tutto, ma ci fermiamo, con la speranza, solo ed unicamente a ciò che è umanamente afferrabile. Di fatto, in questo modo, “tarpiamo” la possibilità che Dio ci venga concretamente in soccorso, perché noi abbiamo già – a priori – escluso dal nostro orizzonte la Sua presenza.

La lettera di san Paolo sottolinea, da una parte, la – potenziale – universalità dell’offerta redentrice di Cristo, mentre, dall’altra, sottolinea la povertà della nostra umana preghiera.

Il brano evangelico giovanneo, infine, con l’episodio delle Nozze di Cana, ci invita alla scuola di Maria, per imparare la fede e la preghiera:

In quel tempo. Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
(Gv 2, 1-11)

Forse, più che in tutto il Vangelo, qui troviamo espresso nel modo più limpido la potenza mediatrice della Madonna, pregata da don Bosco come Ausilio dei cristiani.
La prima osservazione che potremmo fare è che si tratta di un miracolo «inutile», o, meglio, non indispensabile: non risana un malato, non ridona la vista a un cieco, né la libertà ad un prigioniero, né la vita ad un morte e neppure rimette i peccati.
Semplicemente: consente agli sposi di non sfigurare davanti agli invitati. Anzi, magari, consente perfino a qualcuno di alzare il gomito un po’ più del previsto. Consente di continuare a fare festa – perché questo, con linguaggio simbolico, veicola la presenza (o meno) di vino.
La seconda osservazione che mi viene è che si tratta di un’estorsione della Madonna. Gesù dice chiaramente di non voler essere disturbato. Non è quello il piano, né il tempo. È lì, come tutti, perché invitato; è lì, per festeggiare: non intende occuparsi d’altro. È Maria che, con intuito femminile, comprende come quel gesto d’attenzione possa significare molto per i neosposi.
«Qualsiasi cosa vi dica, fatela»: in questa frase, si condensa tutta la fiducia, che nasce dall’amore. Non ha bisogno di insistere oltre, perché si fida. E, fidandosi, si affida al discernimento del Figlio: io ti sto segnalando questo problema, affido a Te il modo migliore per accostarTici.
È qui che, probabilmente, un po’ tutti facciamo fatica. Perché anche a noi capita di accorgerci di una necessità, di un problema, di un’avversità; la differenza è che noi vorremmo dire a Dio anche come risolverla. È qui che si annida la nostra mancanza di fede ed è qui che dobbiamo metterci in ascolta della scuola di fede della Madonna. Fede è accogliere la volontà di Dio: qualunque essa sia. È difficile, una fede così, come quella di Maria.
Eppure, è liberante. Perché ci libera dall’ingombro di noi stessi.

Rif: letture festive ambrosiane, nella II domenica dopo l’Epifania, anno A – Numeri 20, 2. 6-13; Romani. 8, 22-27; Giovanni. 2, 1-11


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

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