La sveglia che suona, sempre troppo presto. È come lo sparo dello start dato ai blocchi di partenza di una gara di velocità. Da quel momento in poi la parola d’ordine è una sola: correre. Mentre si fa colazione, magari in piedi, una tazza di caffè ed un biscotto trangugiato in fretta. Vestirsi alla velocità del mitico Superman. Affrontare la giungla del traffico. Quando si esce dal lavoro, poi, ricomincia la corsa: spesa-commissioni-famiglia-cena… il momento di posare la testa sul cuscino è il più ambito di tutta la giornata. E poi, l’indomani, ricominciare tutto da capo.
Se vi siete riconosciuti, siete in buona compagnia. Ma è un mal comune che non regala il mezzo gaudio, vero?
In un giorno ci sono la bellezza di 86400 secondi. Che poi sono anche 1440 minuti. Che infine sono 24 ore. La maggior parte di esse è vissuta da molte persone con una fastidiosa sensazione di affanno: si corre per non perdere tempo, ma lui – infingardo – non si lascia racimolare come un piccolo bagaglio di scorta. Continua a scorrere beffardo, simile ad acqua che si rifiuta di farsi stringere tra le dita.
La bellezza di 86400 secondi.
Ne basta una manciata di questi, circa una ventina, spesa in un abbraccio, per far scendere drasticamente i livelli di stress. Ne è sufficiente un’altra manciata per prendere in mano il telefono e farci vicini a qualcuno a cui teniamo. Un’altra ancora, e possiamo soffermarci ad osservare la luna piena, un tramonto color amaranto, il sorriso del nostro vicino mentre legge un libro in metropolitana.
Ma queste sono sciocchezze! Chi vuoi che abbia tempo per osservare il cielo, la forma delle nuvole, quei due anziani che passeggiano sorreggendosi l’uno all’altra? Ci sono cose più importanti!
Poi il Male – chiamiamolo col suo nome, senza timore, perché non è manna discesa dal cielo – un giorno bussa alla porta ed entra sfacciato, senza mai essere stato invitato. Ha molte forme: dolore, malattia, lutto, per esempio. Ed ecco che d’improvviso quegli 86400 secondi diventano la cosa più preziosa del mondo. Diventano ricordi a cui aggrapparci con tutte le nostre forze, voci che non sentiremo mai più, abbracci che non potremo più ricevere. Diventano attimi che vorremmo non scorressero mai: dammi ancora cinque minuti – chiediamo alla vita – per sorridere, per amare, per stringere mani, per vedere il bello che ancora esiste.
E tutte le corse della routine quotidiana ci appaiono ora così piccole, così poco importanti per essere affrontate con toni melodrammatici: è l’esistenza che reclama le proprie priorità.
Impariamo a fermarci. A prendere fiato dai ritmi che ci vengono imposti o che ci imponiamo. Proviamo a considerare l’idea di rallentare. Le migliaia di secondi a nostra disposizione non cambieranno di una virgola, ma, se troviamo un modo migliore per viverli, non ci sembreranno più come degli acerrimi nemici, ma come compagni di viaggio.
Facciamo fare un ricalcolo al nostro navigatore interiore.
Il Male non diventerà d’un tratto meno schifoso. Rimarrà tale, con il suo carico di dolore che vorremmo prendere a calci, talvolta con rabbia, per restituirgli pan per focaccia. Riusciremo però ad opporgli il nostro inno alla vita, perché di quei secondi che ci sono stati concessi ne avremo fatto un tesoro da lasciare in eredità a coloro che abbiamo amato.
In memoria di Giovanni Custodero, il guerriero sorridente.