La mamma nel mentre stende il bucato ancor profumato. Il papà che, spossato, rincasa dai campi col badile tra le mani. Il curato e la sua piccola chiesa di montagna. Il bambino e la sua pesante cartella sulle spalle. Il nonno-soldato acciaccato da autunnali malanni. Il controllore dal berretto verde dell’Eurostar. Il lavapiatti di Tunisi. Il lavavetri di New Delhi. Il custode del cimitero di guerra. Quanti sono i candidati alla santità? Nell’Apocalisse si tenta un censimento: 144.000. Ma la Scrittura attesta che i censimenti umani non garantiscono esattezza. E nemmeno il favore divino. Ci provò pure il superbo Erode: ma nel conteggio gli scappò un Bambino. Giusto il necessario per sconvolgere i piani di un’intera potenza. La Chiesa stila i suoi calendari: attesta le virtù, ne approva l’eroicità, li pone a modello. Il tutto a morte avvenuta, però. Ma finché pestano la nuda terra, grattano la fatica del giorno, arrancano sul pendio dell’esistenza la loro bellezza sta nell’essere irriconoscibili. E forse anche un po’ clandestini: senza rumore, senz’annuncio, senza avvertenze alcune. Mangiano, sudano, inciampano. Studiano, faticano, sognano. Spostano, alzano, restaurano. Lavorano, dormono, pregano. Pur transitandoci vicino, si rischia di non riconoscerne i lineamenti. Non foss’altro per quella passione di vivere emozionando e lasciandosi emozionare. Nel nascondimento di una vita – magari in fronte ad una lavatrice o accollati ad un lavabo per trent’anni – compiono un viaggio pauroso: quello delle profondità. Coltivando il sogno di rimanere anonimi sulla terra. Ma protagonisti nel cielo.
“Trascendenza” la chiama la teologia. La fatica del concetto, l’astrusità dell’immaginazione, la complessità del pensare. Quando in realtà è la semplicità che disarma. Trascendenza è buttarsi dall’altra parte. E’ aggrapparsi. Salire. Innalzarsi. Tentare la scalata verso l’oltre. Svicolare tra banali possibilità d’esistenza per incunearsi a scrutare il cielo. Se sarà necessario tornare bambini per approdare Lassù, allora la santità la possono capire pure loro: piccoli solo quaggiù. Forse per essere santi basta poco: quel poco che pensiamo insignificante, ininfluente e debole. Trasformare gli attrezzi di tutti i giorni in occasioni di santità: studio, lavoro e preghiera. Sorriso, tristezza e malinconia. Stupore, meraviglia e immaginazione. Piatti, carrelli e stoviglie. Strette di mano, incontri e sguardi. E’ un problema la santità: perché ciò che è semplice sembra non essere degno d’attenzione. Di studio. D’eleganza. Eppure santi si diventa quaggiù: con i piedi che calpestano la terra, con le mani che inanellano creazioni, con i pensieri che innalzano. O abbassano.
Consolante sapere che anche i santi viaggiano in borghese. Che si confondono tra la gente. Che, seppur separati dai quotidiani sogni, non si stancano d’additare il cielo. In silenzio.
Il Santo Curato d’Ars – divenuto patrono dei parroci a morte compiuta – al primo esame scolastico ricevette come compenso la lettera “d”. Nel codice dei professori significava: “deficiente all’ultimo grado”. Spedito ad Ars non sapea la strada per approdarvi. Gliela spiegò un bambino che, in cambio, ricevette un sogno: “Tu mi hai mostrato la via per Ars, io ti mostrerò quella per il cielo”.
Da contadino ignorante a mago del cielo: la differenza era la profondità dello spirito.
Che viaggiava nascosta.