Come ogni anno, finiamo sempre con l’essere presi in contropiede. Mai abbastanza pronti. Qualche calzoncino che profuma d’estate ancora in giro per casa, a ricordarci l’estate che sembra passata da così poco… sì, perché, per l’uomo comune, l’Avvento certifica che il Natale è alle porte, con tutto il corollario nazionalpopolare che si porta appresso: l’inverno, la neve, i regali, la famiglia riunita, i regali.
“Vegliate e pregate, perché non sapete né il giorno né l’ora”(Mt 25, 13) è l’invito che ci consegna la liturgia, che si ripeterà in tante antifone ed in tante letture di questo periodo liturgico.
Ha ancora senso, per l’uomo di oggi, parlare di attesa del Natale, o rischia di essere anacronistico?
Attendere ci infastidisce enormemente. Se pensiamo all’attesa, la prima, istintiva reazione è una sonora sbuffata. Tale è la nostra reazione se scopriamo, ad esempio, che l’autobus ritarderà 20 minuti. Cosa sono 20 minuti, in una vita? Ben poca cosa, no? Eppure ci sconvolge i piani!
Bene, la realtà è che, se Dio si è fatto carne, è proprio per sconvolgerci i piani. E anche infastidirci un po’, in un certo senso. Perché è questo – da sempre – il ruolo di Dio nella storia.
Certo, il rischio, sempre in agguato, è che il corollario “laico” con cui abbiamo ricoperto questa festa cristiana rischi di oscurarne il vero fulcro. Ma la verità sconvolgente che siamo chiamati a ricordare, ogni anno, è di importanza capitale. Dio si è fatto Uomo. Di più. Si è fatto Bambino. Si è fatto piccolo, per ricordarci che è solo nell’essere piccoli che possiamo trovare la vera grandezza, perché è proprio lì che Dio ha scelto di porre la propria dimora.
Dove noi non lo avremmo cercato. Dove non ce lo saremmo aspettato.
E lui, atteso o inatteso, trova sempre il modo d’arrivare. Nonostante le nostre resistenze e le nostre fughe. Nonostante gli attriti, gli scontri e le incomprensioni. Nonostante tutto e tutti, ogni tanto si ripresenta l’Avvento, con il suo invito ad un cambio di ritmo.
Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come lana, ma la mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione (Is 51, 7-8)
La Parola che ci offre la prima lettura è aspra, ma inequivocabile. Sancisce una differenza tra noi e Dio. Partiamo da presupposti, siamo costituiti in modo diverso: ecco, quindi che i risultati saranno differenti. L’uomo può manifestare forza bruta, malvagità, capacità di umiliare l’avversario: il risultato, tuttavia sarà effimero, com’è proprio dell’uomo.
Dio è ontologicamente differente. Il suo passo è lungo e molto disteso, perché si dipana nei secoli, il suo ritmo è quello dell’eternità. La sua giustizia pare lenta, tuttavia è perfetta, perché “dura per sempre”, ricevendo da Dio stesso il connotato di una durata così lunga da esserGli coeterna. Il suo intervento è così memorabile, da passare la sua efficacia da una generazione all’altra: questo è il destino stesso della venuta di Cristo.
Accaduta una volta nella Storia dell’umanità, si perpetua, ogni giorno, ogni ora, su ogni altare del mondo, quando tra le mani (pur indegne) del sacerdote, il Verbo torna a farsi carne e Pane da mangiare, per la Vita del mondo. Parola Incarnata, per l’uomo di ogni tempo.
Anche nel Vangelo si torna a parlare di contrasti e di scandali, di guerra e di catastrofi, di odio e di tradimenti, di falsi profeti e di credulità: in mezzo a questo marasma, pare che l’unica vera salvezza risieda nella perseveranza.
«Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome.
Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (Mt 24, 4-14).
Siamo verso la fine del vangelo di Matteo: la missione di Gesù volge verso la sua conclusione e Cristo vuole assicurarsi che i discepoli che rimangono a continuare la Sua opera non si lascino fuorviare né sviare dai furbacchioni che abitano ogni luogo della terra. Più di tutto, però, un’angoscia, in particolare, sembra attanagliare il cuore del Salvatore: l’eventualità che il dilagare del Male possa scoraggiare i buoni e spegnere la passione per il Bene. Ecco perché incoraggia alla perseveranza.
Quante volte la prima reazione è quella di gettare la spugna, perché ogni cosa che facciamo sembra inutile? L’Avvento è quella speranza che squarcia con un mite chiarore la notte più cupa, consentendoci di credere, che ad ogni notte, anche la più oscura, seguirà l’aurora di un nuovo giorno.
L’Avvento ci invita all’attesa: quella che noi vorremmo respingere ed evitare in ogni modo, come la peste.
Eppure, non è un’attesa qualsiasi. È un’attesa vigilante. È un’attesa per gente sveglia.
Ci è chiesto di fermarci, di prestare attenzione, di scrutare il vicino ed il lontano con eguale attenzione, affinché non perdiamo di vista ciò che è davvero necessario ed irrinunciabile.
Fermarci risulta – sempre – difficile. Eppure, fermarci si rivela – alle volte – necessario: per scoprire ed assaporare i dettagli, per notare ciò a cui altrimenti non avremmo rivolto la nostra attenzione, per rimettere al centro le nostre scelte di vita, le priorità attorno alle quali la nostra vita diventa un intarsio creativo ed ordinato, invece di un caos disorganizzato.
Rif: letture festive ambrosiane, nella I Domenica d’Avvento, anno A (Is 51, 4-82Ts 2, 1-14Is Mt 24, 1-31)
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