Era comparso all’improvviso, una calda mattina di luglio di qualche anno fa. Dalla finestra di casa, distante una manciata di metri, appariva come un batuffolo piccolo e nero che rimbalzava qua e là in completo spirito anarchico. Davanti alla presenza di noi bipedi cambiò atteggiamento, diventando guardingo, diffidente: si intrufolò in un baleno sotto ad un’auto parcheggiata, occhieggiando con paura al mio tentativo di avvicinarlo. Non mi diedi per vinta. Tornai il giorno seguente con una ciotolina d’acqua e del cibo. Uscì dal suo nascondiglio solo parecchio dopo, una volta accertatosi che mi fossi allontanata. Volli tentare ancora, dandogli appuntamento nei giorni a venire. Proprio come la volpe del Piccolo Principe, quel coniglietto solitario mi stava insegnando l’arte dell’addomesticare: ero io a dover rispettare i suoi tempi, non il contrario. Appuntamento dopo appuntamento, la distanza diminuiva sempre di più. La prima volta che si lasciò accarezzare, accettando di mangiare direttamente dalle mie mani, fu un regalo sì sperato, ma anche coltivato con pazienza.
Si dice che “la pazienza è la virtù dei forti”. É vero, purché si abbia ben presente cosa essa sia per davvero. Se la confondiamo con il saper attendere e basta rischiamo di tramutarla in pigrizia: sedersi sulla riva ed aspettare sarà pure una pratica molto zen e non-violenta, ma se diventa la sola ed unica attività è tempo gettato alle ortiche.
Se andiamo alla radice del termine scopriamo che la pazienza ha al suo interno un seme di sofferenza: tanto dal greco, quanto dal latino, questa parola ha in sé il patire che somiglia molto al granello di sabbia che s’intrufola nell’ostrica. Fa male, è doloroso da portare, ma – strato dopo strato – è cullato fino a cambiare in qualcosa di nuovo e prezioso. Non è quindi un’attesa passata a rigirarsi i pollici, ma un tempo vissuto in pienezza, in continua attività così silenziosa da sembrare impercettibile ad un occhio poco attento.
“Volgi lo sguardo dai peccati degli uomini fino al (loro) pentimento.” (Sapienza 11,23)
La pazienza di Dio, prototipo di quella umana, può essere racchiusa in un celebre motto tratto dai libri di Harry Potter: “Vigilanza costante!”
Il testo greco, infatti, ci regala pennellate di un Dio che si ostina con pazienza a non concentrarsi sul male compiuto dall’uomo, la sua creatura fatta ad immagine e somiglianza. Quel “volgere lo sguardo”, infatti, è letteralmente un “guardare con la coda dell’occhio”: altro che attesa pigra ed indolente! E’ una vigilanza costante, fatta quasi in disparte, con il volto che sembra altrove, mentre la mente, il cuore e la coda dell’occhio stanno lì, in trepida attesa di un passo verso una Misericordia che freme di compassione e d’amore.
Pazienza non significa però tolleranza a qualsiasi costo: quella è l’indolenza. Pazienza è amare qualcuno così com’è, ma al tempo stesso adoperarsi perché possa migliorare, perché possa crescere. Non va confusa, quindi, con la bonarietà di chi passa sopra a tutto con una disinteressata alzata di spalle; il suo è invece un perenne “abbigliarsi il cuore” – così chiedeva la volpe al Piccolo Principe, per prepararsi ai loro appuntamenti – che è uno stato di allerta che non abbassa mai il livello di guardia: pronto a scattare al minimo cenno di conversione dell’uomo con la stessa tenacia di un centometrista ai blocchi di partenza.
Prima lettura domenica 3 novembre:
Sapienza 11,22-12,2.