Nella prima lettura, troviamo il racconto della scelta di Barnaba e Paolo come prescelti per partire con l’obiettivo di predicare in posti nuovi la Parola di Dio. Una benedizione, poi la partenza. Andare con Dio. Andare per Dio. Che si traduce, a volte, nell’andare “da Dio”. L’importante è, però, non ritenersi Dio. Avere cioè – sempre – la consapevolezza di essere “cristofori” (cioè, portatori di Cristo) ed eterna “cristomorfosi” in divenire, mai però completa, né del tutto soddisfacente, ma – inevitabilmente – pallida imitazione, rispetto all’uomo perfetto che Cristo non solo rappresenta, di più: è.
Seguirà il ritorno alla base, la condivisione: la comunità invia, alla comunità si fa ritorno. Missione è partire, ma anche tornare e perfino restare. Dimorare in Cristo è – anzi – forse la più difficile delle imprese. Perché – persi nel fare – rischiamo di dimenticarci di rivolgere lo sguardo a Chi, da dentro, riempie di senso le nostre azioni, altrimenti vuoto attivismo, che rischia di essere buono solo a placare I sensi di colpa.
«Fratelli, su alcuni punti, vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (Rm 15, 15-16)
La seconda lettura ci richiama all’omportanza della correzione fraterna e del dialogo sincero, piuttosto – se serve – audace. Credo che l’audacia sia assolutamente un valore da riscoprire. Valorizziamo fin troppo, fino all’abuso, il rispetto, che, così facendo, corre – per converso – il rischio di divenire una presa di distanza, anzi – a suo modo – una forma d’indifferenza.
L’intervento – piuttosto, deciso, se necessario – racconta di un legame. Chi corregge, ama. Chi ama, corre il rischio di perdere. Perché ama più la persona che il legame che li unisce. È – conseguentemente – disponibile a pagare il prezzo più alto possibile: perdere quel legame, a patto di salvare quella persona, che significa, in concreto, non rinunciare alla verità su di lei, anche a costo di poter essere fraintesi nelle proprie (buone) intenzioni.
A conclusione del mese di ottobre, dedicato alle missioni, riceviamo, infine, dal Vangelo stesso, una Parola che ci ricorda il kerygma di ogni annuncio, senza il quale non possiamo dirci cristiani:
«Fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20)
Non c’è nulla di male nel desiderio di sollevare I popoli dall’indigenza, oppure dall’impegno verso una maggiore giustizia sociale ed un’equità crescente tra gli individui. Non è, però, questo, il compito peculiare del cristianesimo, secondo le parole del Maestro di Nazareth. Fondamentale è la salvezza delle anime (“da mihi animas, caetera tolle” era la richiesta, lancinante, di un grande educatore, come san Giovanni Bosco): per questo è imprescindibile far conoscere Cristo, presentare la fede nella Santissima Trinità e il comandamento dell’amore, quale paradigma fondante in grado di riassumere in sé l’intero decalogo.
«La missione della Chiesa non consiste nel difendere poteri, né ottenere ricchezze; la sua missione è di donare Cristo, di partecipare la Vita di Cristo, il bene più prezioso dell’uomo che Dio stesso ci dà nel suo Figlio» (Benedetto XVI, Instanbul, omelia, 1 dicembre 2006): presi dall’attivismo del fare, a volte, il rischio è, infatti, dimenticarsi, per Chi siamo in cammino, verso dove andiamo e perché l’urgenza dell’evangelizzazione ci spinge, sempre più spesso a ri-evangelizzare, perché – paradossalmente – gli equivoci più gravi sulla fede cristiana può capitare abbiano luogo proprio in Occidente, dove, nonostante la presenza secolare della Parola di Dio, una sempre più profonda secolarizzazione ha fatto sì che il volto di Dio risulti spesso vittima, prima ancora che di abbrutimento, di ignoranza, non sempre – o non del tutto – in malafede, ma, talvolta, testimonianza viva di come gli strali anticlericali abbiano spesso colpito anche Cristo, l’Innocente per eccellenza, ancora una volta vittima d’incomprensione, dubbio, arroganza, ignoranza. Ecco, quindi, come, alle volte, nelle nostre case, nei luoghi del lavoro, essere missionari si declina nel fare giustizia su chi sia davvero Cristo, al di là di un volto che, oltre ad essere nascosto dal secolarismo, è spesso velato dal nostro peccato, dalle nostre continue infedeltà ed incoerenze.
Partire, tornare, restare, dimorare. Nulla di questo può prendere corpo, senza la sicurezza di una compagnia concreta, viva, vicina, reale, disponibile, amorevole, pronta al perdono ed al sostegno.
«Io sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20): è più che una promessa: è la garanzia di una Presenza reale, costante, che non ci abbandona mai. È il commiato del Vangelo di Matteo e un promemoria per i giorni nostri: Cristo fa sul serio, non emette promesse da marinaio. Forse, in questo passo, è racchiusa la frase più squisitamente eucaristica dell’intero Vangelo, persino più della stessa istituzione e della lavanda dei piedi giovannea. Infatti, se, nell’istituzione è spiegato il “cosa” e nella lavanda dei piedi ci è mostrato il “come”, in quest’ultimo possiamo ritrovare un profondo “perché” eucaristico.
Cristo si rende conto di quanto abbiamo bisogno di conferme e di vicinanza. Prima di lasciare i Suoi, infatti, li rassicura: «non vi lascerò orfani, ritornerò a voi» (Gv 14,18). Essere figli, nel Figlio, di un unico, misericordioso, paziente, giusto e buon Padre è il fulcro dell’intero Vangelo, la ragione più profonda della venuta di Cristo. Non più un Essere perfettissimo, ma inconoscibile e distante, nella sua magnificenza e nella sua maestà, bensì un Padre, a cui dire Abbà e di cui ricercare l’abbraccio benedicente, proprio nei momenti di maggiore sconforto ed abbandono. Quell’abbraccio a cui poter tornare, proprio quando meno ce lo meriteremmo; che è quando più ne abbiamo bisogno!
Rif: letture festive ambrosiane nella I domenica dopo la Dedicazione della Cattedrale [At 13, 1-5; Rm 15, 15-20; Mt 28, 16-20]
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Fonte: Parole Nuove