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Il brano che ci propone la liturgia come prima lettura, tratto dal terzo Isaia, cioè il profeta anonimo che vive nel tempo del ritorno da Babilonia (sec. VI-V a C), riflette sulla nuova composizione della Giudea. Prima dell’esilio in Babilonia, l’immaginario legato allo straniero lo vedeva ostile, incapace di responsabilità sociale e di intessere legami familiari duraturi. Con sorpresa, si rivelano, anzi, anche migliori dei propri compatrioti. «Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti», dice Dio.
Se ci pensiamo bene, le stesse perplessità e sorprese del popolo d’Israele sono anche nostre. «Perché vai a Messa? Sono tutti ipocriti.. la domenica in chiesa, ma tutti gli altri giorni… sono peggio degli atei!». Quante volte ci è stata posta questa domanda? Quante volte noi siamo stati i primi a porcela, domandandoci perché andare a Messa se noi – per primi – abbiamo tanto da imparare, per disponibilità, pazienza, mansuetudine, umiltà da tanti esempi di persone che, nonostante non sopportino l’odore dell’incenso, dimostrano carisma ed altre virtù umane ben sopra la media?
Il brano ci fa riflettere su come la nostra prospettiva sia lontana da quella di Dio. La vera domanda non è come sia possibile che, senza un rapporto autentico con Dio, anche i “lontani” possano essere migliori di noi, bensì: come potrebbero essere se potessero ricevere forza dalla grazia di Dio per diventare migliori?
Credo che questo ottobre, mese missionario, ci interroghi su come possiamo, ciascuno nel proprio ambiente e nella propria quotidianità, diventare centro d’attrazione verso Gesù Cristo, come il Battista che, nella sua predicazione carismatica ed ascetica, non dimenticava mai di additare con forza l’Alfa e l’Omega, il motivo per cui egli stesso poteva essere detto “l’ultimo dei profeti”cristo, cioè Gesù.

 

Nella lettera di san Paolo ai Corinzi, troviamo un elenco di vizi e mali, presente anche all’interno della comunità cristiana. Ecco quindi che abbiamo la conferma, al di là di una certa idealizzazione con la quale guardiamo ai primi cristiani, che – fin dai primordi, non è mancato chi – purtroppo, beninteso – ha dato scandalo. Il dramma del male, da sempre, s’insinua nelle pieghe dell’umano, affascinandoci e spingendoci verso di sé, nel tentativo di separarci definitivamente da Cristo, rassegnati all’impossibilità di essere buoni discepoli alla sequela del Divin Maestro.

Il brano matteano riporta, infine una serie di metafore, per definire il Regno dei Cieli:

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 Un tesoro, nascosto in un campo: indica qualcosa di prezioso, in un luogo inatteso. Seppellire un tesoro in un campo era scelta di chi, di fronte alle invasioni, sotterrava i propri beni, nella speranza di poterli ritrovare, qualora la situazione fosse tornata alla normalità ed egli avesse potuto far ritorno nella propria casa. Un contadino lo trova per caso, ma vuole conservarne l’integrità, tanto che lo riseppellisce, prima di comprare quel campo, così da difendersi dall’eventualità che qualcuno possa “batterlo sul tempo” e sottrargliene anche solo una parte.
La seconda metafora richiama, invece un moto di ricerca volontario: un mercante che cerca perle preziose: riconosce l’enorme valore di una sola perla e, per essa, abbandona la ricerca, perché essa è giunta alla sua naturale conclusione, trattandosi di una perla dal valore inestimabile. Per quella perla, vale la pena vendere tutto, pur di averla.
Il terzo esempio è forse il più familiare a chi lo ascolta, che bazzica i dintorni del lago di Tiberiade: come una rete, che raccoglie molti tipi di pesce. Non tutti sono buoni: alcuni sono gettati nel forno.
Il richiamo è di nuovo alle lettera (e all’esperienza) di san Paolo: seguire Gesù non è – di per sé – garanzia di infallibilità. Non si formano comunità di perfetti (“càtari”): il peccato permane, infiltrato con il peccato originale, come un tarlo che ci consuma e ci espone alla possibilità quotidiana di tradire Cristo.
Il Regno dei cieli è la volontà di Dio sull’uomo, che si ferma dinanzi al libero diniego dell’uomo, ma che, nondimeno, non cessa di inseguirne le orme, nel tentativo di avvinghiarlo a sé con la persuasione d’amore di cui vediamo prova nel Cantico dei Cantici.
Il finale è il punto che, da sempre, mi ha affascinato di più:

«ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». (Mt 13, 52)

Ciascuno di noi – o, quanto meno, chiunque aspiri a seguire Cristo – è chiamato ad essere simile al padrone di casa dell’immagine: legato alle proprie radici, è capace di mantenersi legato all’essenziale, senza perdere di vista la possibilità di nuovi percorsi, nella fedeltà alla volontà divina.

 

Rif: Letture festive ambrosiane, nella Settimana Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista – Is 66, 18b 23; 1 Cor 6, 9-11; Mt 13, 44-52


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

Fonte immagine: Pexels

 

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