Nell’Impero Romano esisteva un termine per designare le zone più remote dei territori dell’Urbe. Il “limes”. Originariamente apparteneva al mondo dell’agricoltura, ed indicava la strada che delimitava il confine tra due campi. Con l’espandersi delle regioni conquistate il limes acquisì un significato più strettamente militare, ovvero indicava l’insieme delle fortificazioni poste lungo la linea di confine tra i territori di Roma e quelli delle altre popolazioni limitrofe.
Nessuna idea di invalicabilità era insita in questo concetto, non a caso lungo il limes avvenivano spesso incontri di carattere commerciale.
E’ con la lingua italiana che il limes – limite – ha acquisito una valenza per lo più negativa, denotando qualcosa di impossibile da attraversare, un confine che è un taglio netto: o di qua o di là, nessuna via di mezzo.
Al di là della questione puramente filologica, c’è anche quella umana: tante volte abbiamo tramutato i nostri limiti in altrettante sbarre di delimitazione, quasi a voler costruire uno steccato lungo il nostro percorso, oltre il quale ci siamo convinti che non ci fosse consentito di andare.
“Ho i miei limiti!”, sospiriamo, quando la stanchezza, la rabbia, la tristezza ci assalgono e ci sembra impossibile poter sostenere altro peso. Quando spunta un ostacolo che si frappone tra noi e l’obiettivo che ci eravamo prefissati in partenza, per cui assecondiamo l’idea che forse è meglio fare retromarcia, smetterla di sprecare energie per poterci così dedicare a qualcosa di più facile.
Ci sono persone, invece, che del proprio limite hanno deciso che non volevano farne un confine, ma hanno saputo tornare al suo significato originario: hanno trovato, così, una o più strade dove quasi nessuno pensava si potesse andare. Hanno sfoderato la speranza e la forza di volontà, contro tutte le previsioni pessimistiche dei gufatori di professione.
“Ho i miei limiti… ma se spostassi l’asticella un po’ più in là, ancora una volta? Se andassi a vedere dove porta quella strada?”
Di sicuro, se c’è una persona che del suo limes ne ha fatto un percorso per il quale non esistono più aggettivi di meraviglia, costui è Alex Zanardi. Un uomo che è un’autentica forza della natura. Lo era prima, negli anni dell’automobilismo, lo è stato dopo, con spirito ancora maggiore, a bordo di una handbike e nella massacrante competizione dell’Ironman, una gara di Triathlon che fa venire il fiatone solo a pensarla. Inoltre: due medaglie d’oro e una d’argento ai mondiali di paraciclismo, record del mondo a Cervia giusto un paio di giorni fa, più un’altra lunga serie di vittorie e piazzamenti da lasciare chiunque a bocca aperta.
Come si fa? Viene da chiedersi. Dove si trova la forza di continuare a lottare? Come si trovano nuove strategie da adottare per mordere quella vita che ti ha messo i bastoni tra le ruote?
La realtà la sto scoprendo in questi mesi in cui sto leggendo i libri di quest’uomo eccezionale: la forza di volontà è sempre stata là, anche prima. Non è calata dall’alto, come un pacco regalo piovuto dal cielo, ma era un tesoro già custodito da sempre, già dai banchi di scuola tra i quali un ragazzino sognava di diventare pilota. Ha saputo adattarsi alla nuova condizione, dopo il terribile incidente del Lausitzring, ha imparato a reinventarsi, trovando nuovi stimoli, nuove sfide da affrontare, dimostrando a tutti che questa vita può riservare ancora tanta bellezza da conquistare ed assaporare.
Questo è quello che avviene quando il proprio limite diventa un’abitudine: non uno steccato che tarpa le ali al nostro cammino, bensì una strada che non ha paura di inoltrarsi lungo territori ancora inesplorati, cosicché altri possano imparare a seguirla.
Grazie, Alex, con tutto il cuore.
Photo: topsport.it
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