Il secondo libro dei Maccabei riguarda avvenimenti che si sono svolti tra il 175 e il 160 a.C., al tempo della grande persecuzione: non può definirsi, tuttavia, unicamente un libro di storia, come vediamo, in modo particolare dal brano su cui si sofferma la liturgia, che possiamo definire esemplare per chi legge.
L’inasprimento delle misure antigiudaiche si collocano nel novembre-dicembre del 167 a.C., con l’abolizione delle istituzioni ebraiche, affidando tale incarico ad uno specialista ateniese, probabilmente con l’obiettivo di spegnere il fervore religioso ebraico.
Il racconto del martirio di Eleazaro è rappresentato come un esempio di coerenza e responsabilità nella fede, libera da ogni ambiguità e da ogni ipocrisia. Proprio per la considerazione che ha presso il proprio popolo, a causa dell’anzianità e della saggezza che gli sono attribuiti, il tentativo è di convincerlo a mangiare carne non consentita dalla Legge (probabilmente, di maiale), perché la sua influenza possa far cedere anche gli altri. Probabilmente anche per rispetto della sua età, oltre che per la conoscenza personale che li legava, tuttavia, coloro che erano incaricati dee banchetto sacrificale, gli propongono di giocare d’astuzia, per “salvare capra e cavoli”: avrebbe potuto fingere di mangiare la carne richiesta, che però era stata sostituita con altra lecita.
Eleazaro rifiuta il compromesso e rifiuta la falsità, esponendo due valide motivazioni. La prima è che si può ingannare l’uomo, ma non Dio, che tutto vede. La seconda riguarda poi la propria responsabilità di fronte agli altri: è proprio la sua età ad imporgli la responsabilità del buon esempio, nella fede e nel rispetto dei valori del proprio popolo, nei confronti dei più giovani. Se, per vigliaccheria o paura della morte, Eleazaro avesse ceduto, i più giovani non solo si sarebbero sentiti autorizzati a fare altrettanto, bensì avrebbero anche ricevuto – seppur implicitamente – il messaggio che la propria vita sia più importante dei valori in cui si crede e, quando essa è in pericolo, sia consentito rinunciare a ciò a cui diciamo di prestare fede e che dà senso alla nostra vita. Eleazaro andrà quindi incontro alla morte con serenità, consapevole che da suo esempio potrà dipendere non solo la vita, ma la salvezza eterna di un intero popolo.
La parola martirio ci mette sempre in soggezione. È un’espressione forte dirsi fedeli “a costo della vita”. Certo, crediamo, magari, andiamo pure a Messa e rispettiamo persino scrupolosamente tutti i precetti, finché non ci è troppo impegnativo farlo. Ma di fronte alla scelta “la fede o la vita”, saremmo davvero capaci di scegliere la prima?
Tutto sommato – ci diciamo – la vita è una sola: dobbiamo apprezzarla, amarla, perché dovremmo rinunciarvi? Se Dio è il Dio della Vita, potrà mai chiederci di rifiutarla? Del resto – come ebbe modo di affermare Blaise Pascal, la vita eterna è una sorta di scommessa: se vinciamo, facciamo bingo, ma è pur sempre vero che – a livello razionale – rimane pur sempre una scommessa, cioè una possibilità di cui non possiamo dire di avere la certezza. Come possiamo dunque lasciare la certezza della vita terrena, per l’incertezza della vita eterna?
Ci viene incontro, nella riflessione, san Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinzi:
noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne (2Cor 4, 18).
Probabilmente, è solo alla luce di questa considerazione, che possiamo meglio comprendere cosa sia il martirio cristiano. È quel fissare lo sguardo che dice la radicale e la credibilità – non l’estremismo!i – della nostra fede. È significativo ed illuminante prendere in prestito un esempio dello stesso san Paolo: quello della corsa. Tanti paragonano la vita ad un cammino. L’apostolo va oltre: per lui è una corsa. Quando cammini, talvolta la meta può sfuggirti. Camminare è – pur sempre – un po’ meno faticoso, per cui risulta meno impegnativo trovare un motivo per farlo. Ma correre, specie d’estate, quando fa caldo, così come sotto la pioggia o la neve, diventa, alle volte, quasi una sfida con se stessi, per cui la domanda “Ma chi me lo fa fare?”. Ecco, la risposta a questa domanda si esplica nel fissare lo sguardo: se non abbiamo davanti agli occhi la meta, anche quando non la vediamo, smettiamo di correre. È inevitabile. Perché stiamo già rispondendo che non ne vale la pena.
Non basta una vita a spiegarci la vita. È complesso ma inevitabile da intuire. Ci aiuta lo spettacolo della natura, quella progettualità innata nel cuore dell’uomo, quella sete di vita che si fa più forte proprio quando ormai il traguardo (della morte) è vicino.
tutte le immagini portano scritto:” più in là “! (Maestrale, Eugenio Montale)
Siamo fatti per Dio e “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Lui” – diceva s. Agostino.
La vera vita va oltre questa vita: in che modo non riusciamo forse a spiegarlo, ma intuiamo che dev’essere così – la necessità si fa più forte di fronte all’ingiustizia, al dolore, alla sofferenza.
La Parola del Vangelo di oggi è uno di quelle che, probabilmente, alla sua epoca, sono state definite “dure”. E, anche alla nostra, sicuramente, risultano di difficile interpretazione.
Potremmo dividere – idealmente – il brano in due parti: nella prima, Gesù spiega cosa sia la grandezza, per il regno dei cieli e chi vi entri; nella seconda, invece, enumera cosa bisogna evitare, se si vuole entrare nel novero dei beati.
Difficile affrontare e misurare la portata rivoluzione delle parole di Cristo, ignorando la concezione. Tuttavia, è anche vero che, proprio attualmente, pare avverarsi una sorta d’inversione di tendenza, che ce le rende più familiari. Basti pensare, infatti, alla recente diffusione di luoghi pubblici “child-free” (vietati ai bambini), oppure, addirittura all’ideologia ambientalista estrema che arriva a sconsigliare la procreazione perché inquinanti (no, non è uno scherzo, se non ci credete, leggete questo articolo del Washington Post!).
Cristo pone al centro i “piccoli” e poi raccomanda di evitare gli scandali. Al di là dell’esempio del bambino, è importante notare che parla di piccoli «che credono in Lui»: quindi, non si riferisce solo ai bambini, con un senso estremo della loro purezza ed innocenza, di cui molti, primo fra tutti s. Agostino, dubitano. Gesù non ha una sorta di idolatria nei confronti dei fanciulli, non li considera esenti da colpe, né da malizia: anche loro, segnati dal peccato originale, possono compiere azioni cattive od egoiste. Piuttosto, li pone come esempio nella fede, perché i bambini sanno essere generosi, nella loro fiducia: una volta concessa, la concedono tutta e non “con riserve”, trattenendo qualcosa per sé.
Gli esegeti sono sostanzialmente concordi nell’evitare un’interpretazione letterale della seconda parte (anche perché rischierebbe di intasare i reparti del pronto soccorso!), tuttavia, come ogni parola che viene da Cristo è bene stare attenti a non incorrere nel tranello di minimizzarla o anestetizzarla. La seconda parte è in stretta relazione con la prima. I “piccoli” sono soprattutto i più giovani nella fede, i più inesperti, magari chi si è convertito da poco e necessita di essere «confermato nella fede» dai confratelli più esperti. È qui che si inserisce la notazione, per cui è meglio perdere parti del corpo, ma conservare l’integrità spirituale. In questa simbolica amputazione, è possibile porre l’accento su cosa davvero conti di più: nel cammino verso la santità (che è la traduzione del nostro anelare verso l’oltre), siamo chiamati, non solo ad evitare di essere scandalo (cioè impedimento, turbamento, ostacolo), bensì ad essere gli uni accanto agli altri, per sorreggerci a vicenda, in questa corsa, che ha come obiettivo finale il dispiegamento e la realizzazione integrale delle nostre aspettative, nella gioia perfetta.
Rif: letture festive ambrosiane nella domenica che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore, anno liturgico C – Secondo Maccabei 6, 1-2. 18-28; Seconda Corinzi 4, 17 – 5, 10; Matteo 18, 1-10
Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
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