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Re era Saul, ma la sua superbia e la sua disobbedienza lo avevano fatto allontanare dalla volontà di Dio, per cui il Signore comanda a Samuele un viaggio senz’altro pericoloso, perché il re avrebbe potuto scatenare la forza militare contro di lui: l’ordine del Signore è di andare a Betlemme, dove avrebbe trovato il re d’Israele. È forse la prima volta in cui compare il nome di questa piccola località, nella Bibbia. Qui, Samuele trova i sette giovani e vigorosi figli di Iesse. Si aspetterebbe, secondo logica, che la scelta cadesse sul primogenito, com’era usanza. Così non fu. E neppure gli altri risultano soddisfare i criteri di Dio.
È forse un viaggio a vuoto? Saul non sa che pesci pigliare… per cui domanda: «Sono qui tutti i giovani?» (1Sam 16, 11).
No, manca l’ultimo, a pascolare nei campi. Davide. È descritto fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto. Detto in altre parole: diverso dagli altri, più mingherlino e più giovane. Per di più, suona la cetra, quindi, sostanzialmente uno scansafatiche, uno che infiacchiva più le dita sulle corde che le braccia in esercizi guerreschi. Probabilmente, Samuele deve aver strabuzzato gli occhi, domandandosi se il Signore non lo stesse prendendo in giro. Di sicuro, sarà stato un giovane di belle speranze e anche dotato di ingegno e talento musicale, magari anche un bravo pastore, perché no? Ma qui si trattava di trovare un nuovo re per Israele, non un artista in erba! È evidente che Samuele deve aver avuto diverse perplessità di fronte a questa scelta, perché c’è stato bisogno che il Signore gli dicesse: «Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore». Senza questa spiegazione, ci sarebbe solo da strapparsi i capelli dall’incredulità. Non fosse che, qualche tempo dopo, i fatti gli daranno ragione, dal momento che, più tardi, sarà questo giovane pastore, dotato solo di una fionda, a sconfiggere il campione dei Filistei.
Testimonianza che “i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri” (Is 55,8). Ma, spesso, è una grazia: anche se a noi sembrano difficili da accogliere, talvolta si rivelano i più azzeccati. Come una madre premurosa, il pensiero di Dio ci previene e precorre: con amorevole provvidenza, sa di cos’abbiamo bisogno anche quando noi non riusciamo ad immaginarlo, ci illudiamo di saperlo e (magari) ci incaponiamo su strade sbagliate e controproducenti, rispetto al nostro bene ed alla nostra felicità.
Quante volte fatichiamo ad essere corretti, salvo poi accorgerci che la correzione ci è preziosa e ci aiuta a crescere e diventare migliori? Il nostro ego è – spesso – il nostro peggiore nemico, in nome del quale rischiamo di procedere a testa bassa in quello che facciamo, senza neppure domandarci se sia possibile operare in modo differente, neppure quando la realtà stessa ci mette alle strette, con le spalle al muro, e ci impone una scelta radicale.

Nel Vangelo, Gesù domanda agli astanti riguardo a se stesso. Ha avuto dei momenti di gloria, la folla lo ha acclamato come “figlio di Davide” e Lui non si è sottratto. Siamo al giro di boa: la gente vuole capire se davvero il Messia tanto atteso sia arrivato.

 «Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?» (Mt 22,41)

Questa domanda, in fondo, è rivolta a ciascuno di noi. Che cosa pensiamo di Lui? A cosa Lo colleghiamo, nella nostra mente e nel nostro cuore? Che idea ci siamo fatti?
È tanto carino, il Gesù del Presepe. Così innocuo, così innocente. Non genera altro che tenerezza.
È così rassicurante il Gesù che dispensa buone parole ai discepoli insicuri.
Eppure, c’è un altro lato della medaglia, che di solito cerchiamo pervicacemente d’ignorare, perché ci scomoda un po’. È il Gesù che ci richiama alla responsabilità della fede, che ci ricorda che il Figlio dell’Uomo deve soffrire e noi, come Pietro, siamo tentati di dirGli: “Non sia mai!”.
Perché ci imbarazza, questo Dio sofferente. Ci sconcerta, ci mette in difficoltà.
Rispecchia i nostri pensieri ricevere risposte e rassicurazioni. La fede come un juke-box che ci restituisce la canzone che scegliamo noi.
È – invece – opportunità di crisi, positiva, incrociare le domande di Gesù che ci chiedono maggiore consapevolezza. Perché l’Amore, senza la Croce, è insipido. È come un disegno a due dimensioni: manca di profondità, di contenuto, di umanità. Potrà richiamare qualcosa di bello, ma non è in grado di realizzarlo, perché – per l’appunto – gli manca qualcosa.
Questo discorso è ripreso da san Paolo:

«Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tim 2,11-13).

Solo accettando tutto di Cristo, non solo quello che ci fa comodo, potremo comprendere l’amore di Dio per noi: un amore che precede il nostro personale compimento e vede il nostro desiderio di bene, al di là della nostra capacità di realizzarlo. Con una peculiarità, che sottolinea l’indipendenza e la totale alterità di Dio, rispetto a noi. Noi tendiamo ad essere incostanti, sensibili al fascino che il peccato esercita su di noi e, per questo, infedeli a Dio, sommo Bene . Dio ci rinnega, se noi lo rinneghiamo, perché accoglie – eventualmente, a malincuore, ma sempre – le nostre libere scelte. Ma non basta la libertà a giustificare la possibile infedeltà di Dio.
Lo abbiamo visto con la storia di Israele, in particolare con il profeta Osea: il Signore rimane fedele, nonostante le infedeltà del popolo e degli stessi sacerdoti. Agisce allo stesso modo con ciascuno di noi. In mille modi, ci allontaniamo, cerchiamo vie alternative, scorciatoie, strategie di comodo, nel tentativo di farci una “fede su misura”.
Con infinita pazienza, Dio ci viene incontro, per prenderci in braccio ed invitarci a perseverare, di nuovo, a partire dall’ultimo dei nostri allontanamenti e tentativi di seguire i nostri comodi, piuttosto che la volontà di Dio su di noi.

 

(Rif: letture festive ambrosiane, nella IX Domenica dopo Pentecoste – 1Sam 16, 1-13; 2Tim 2, 8-13; Mt 22, 41-46)


Fonte immagine: Pixabay

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