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Si diffondeva la notizia della malattia, per quanto anomala e di grazia fosse: un tumore chiuso in una ciste, basta toglierlo senza romperlo. Già un miracolo! Sì, non una botta di culo, una fortuna immensa.
Che cos’è la fortuna? Chi me lo sa spiegare? Chi è? Per me non esiste la fortuna, esiste solo il buon Dio. Per me, non capita nulla per fortuna, ma solo per grazia e la mia era già una grande grazia, un immenso miracolo, per il quale non potevo che ringraziare.
Bisognava anche pregare, tanto, insieme.
Grazie ad amici, genitori, parenti si è creata una rete di preghiere mondiale. Persone che io non avevo mai incontrato, né incontrerò mai, gente miscredente, comunità di suore, eccole lì, in macchina, al lumicino di una candela la sera, in chiesa in solitudine o con le consorelle, stese a letto prima di chiudere gli occhi… eccole lì, a pregare per me, a dire: “Signore, ti prego per Alberto… Maria, ti prego per Alberto… Dio, se ci sei, se esisti, aiuta Alberto”.
Pur non conoscendo questi figli e queste figlie di Dio, questi esseri umani che non si arrendono al male, ma che, pur in tutta la loro fragilità, con la semplicità e la potenza di una preghiera, perseverano nel bene, credendovi ancora; pur non conoscendoli, io sentivo la loro vicinanza, mi rendevo conto della pioggia di preghiere che stavano cadendo su di me, come una benedizione che veniva da loro, proprio da loro, da questi fratelli e da queste sorelle sparse nel mondo, mai visti né sentiti. Potevo percepirla, la forza di quelle preghiere, sentire che penetrava in me donandomi quella serenità e quell’equilibrio che in molti mi facevano notare. Quanto dipendeva da me quella serenità, quella pace? Veniva dalla mia consapevolezza di lasciarmi andare o da queste preghiere sconosciute? Ecco, una serenità interiore non si costruisce mai da soli, si comincia da sé, la si cerca, ma ci vuole l’aiuto di qualcun altro, perché un conto è provare a spostare una nave da soli e altra cosa tirarla in dieci, cento, mille.
Dopo Into the wild, è andata di moda quella frase “la felicità è reale solo se condivisa”. E con il dolore? Non si può dire che non sia reale se non viene condiviso, ma di certo condividerlo, rendere partecipi gli altri non solo di ciò che ci fa stare bene, ma anche di ciò che ci fa soffrire, ci sgrava un po’ del suo peso, ci allevia un po’ di dolore, che in parte se ne va da noi. È come dire: “Fratello, sorella, aiutami un po’ tu con questo, portane almeno una briciola, anche solo una mia parola o una lacrima, e mi sentirò un poco più leggero”.
Se non avessi detto al mondo che avevo un tumore, sarei stato così bene? Avrei raccolto quelle preghiere?
Alcuni mi facevano capire che di certe cose bisogna parlarne con delicatezza, riservatezza, che si deve stare vaghi, in poche parole che non si dovrebbe dire nulla. Ma perché? È meglio tenere tutto il dolore e la paura per sé o è meglio cercare una spalla su cui posarsi e piangere, lasciando scivolare via un po’ di quel dolore?
Forse, stoici come siamo cresciuti, come ci hanno educato, le lacrime le teniamo solo per il cuscino, nel buio della nostra camera, al massimo per nostra moglie o per nostro marito, perché sono un’onta, un crollo della nostra potenza, la vergogna di chi non sa più tenere completamente sotto controllo la propria vita. E se anche non ci sono lacrime, nemmeno le parole facciamo uscire dai nostri cuori, dimentichi che quel fratello che ho di fronte, quell’essere umano che mi è vicino, è nella mia stessa condizione di fragilità ed è lì per accogliermi. Quale uomo, all’amico che gli confessa un dolore, una malattia, risponde con una maledizione?
Credo di aver imparato questo, che il dolore non vada tenuto tutto per sé, perché intorno a noi, anche nelle persone più inaspettate, c’è qualcuno che si prenderà cura di noi, che ci sosterrà, anche solo con una, ma sempre potente, preghiera.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, la condizione umana non è la potenza, l’eroismo, ma la fragilità, la debolezza intrisa nella nostra carne e nelle nostre anime, fino alla fragilità per eccellenza che porta comunemente il nome di morte. Non sono potente, non sono eroico, per quanto lo desideri; sono fragile, in balia di eventi che mi oltrepassano e che dicono tutta la mia fragilità. Allora se c’è una potenza nell’uomo, come diceva san Paolo, essa sta nel rendermi conto della mia fragilità, nel rendermi conto di non farcela da solo e di aver bisogno di qualcuno, di un fratello e di una sorella, e ancor di più di Dio. È paradossale, “quando so di essere debole allora sono potente, perché mi affido a Dio”.
Me ne rendo conto soprattutto ora, mentre, convalescente, stendo queste righe. A quasi un mese dall’operazione, riesco a stare a malapena in piedi, con la ferita che mi tende come un arco e la schiena che si carica di questa scomoda posizione. Se faccio mezzo chilometro in più di camminata, un sonno pesante mi travolge e non desidero altro che il letto, ogni piccolo gesto sembra bruciare il doppio dell’energia che possiedo: tutto, inaspettatamente, mi è più faticoso. Sento la gravità di questo corpo, la sua stanchezza, i suoi sussurri, che m’invitano a desistere da ogni piano che avessi in mente, da ogni repentino recupero. In questo momento il mio corpo è un medico che mi parla dalla mia stessa carne. Non m’invita a star tranquillo, a riposare, ma proprio mi obbliga, mi dice che non ci sono alternative, se non quella di star peggio che prima.
Ricordo di aver detto ai bambini: “Ci rivediamo il 19, massimo a fine ottobre”. Invece, eccomi qua, ancora dolorante, debole come credo di non esser mai stato, capace di affaticarmi solo a star seduto troppo a lungo in cucina o a parlare con qualche amico per più di un’ora.
Questa, lo ammetto, non me l’aspettavo. Credevo di recuperare nel giro di una decina di giorni. Non sapevo nulla.
Di nuovo, quindi, l’abbandono: non mi resta che quello, lasciarmi guidare dal mio corpo, dalla malattia stessa, che conosce bene la strada per la guarigione, che sa cosa deve fare e me lo comunica, a suo modo. Non si tratta di medicine, in questo caso, ma di uno stato fisico e mentale, chiamato riposo.
Ma questa potenza che colgo nella debolezza non è tanto un lasciarsi travolgere dall’onda, un farsi schiantare, ma divenirne parte, diventando onda noi stessi. Non è una storiella rosa, questa, una bella frase sdolcinata su cui versare una lacrimuccia, perché io quella potenza, quella forza serena l’ho sentita tutta, vivente in me, presente come mai prima, capace di far sparire anche la paura della morte.
Dovremo vivere così, abbandonati totalmente, totalmente, nelle braccia di un Padre che vuole proprio questo abbandono, non perché lui sia superbo e voglia fare al posto nostro come se volesse denigrarci perché incapaci, ma perché lui vuole fare insieme a noi, né lasciandoci soli, né facendo da solo, ma insieme, per amore.

Ripensando al giorno in cui mi venne detto che cosa mi aspettava, in ospedale, ho subito sentito il bisogno di andare nella chiesa che c’è al pian terreno. Lì, pur avendo già in mente di tener duro, di non temere, perché Lui era con me, una polla di lacrime mi è uscita irrefrenabile dagli occhi. Non ho potuto trattenerla. Perché piangevo? Perché avevo paura? Perché la notizia era più grande di quanto potessi sopportare? Non temevo per me, ma per le mie bambine, che sono state il mio primo pensiero: “Come faranno senza il papà?”. Quel pianto era per loro, perché capii che potevano perdermi e il trauma di un bambino che perde un genitore è indelebile, ce lo si trascina per tutta la vita.
Il problema non è per chi va, ma per chi resta e ha ancora bisogno di te. La questione non è aver paura di morire, per quanto quel momento faccia vibrare l’uomo al solo pensiero, ma temere per chi lasciamo, sapendo che per alcuni siamo ancora indispensabili, necessari. Io sentivo di essere necessario solo per le mie bambine; gli altri, per quanto dolore avessero provato, sarebbero stati grandi e avrebbero capito che dove me ne andavo sarei stato meglio di tutti loro messi insieme, che da lì li avrei aiutati meglio che se fossi rimasto. Ma le mie bambine… le mie bambine… che cosa si sarebbero ricordate? Cosa sarebbe rimasto in loro dell’insegnamento che ho potuto darle finora? Probabilmente poco o nulla. Certo gli insegnamenti e l’amore sarebbero rimasti, in qualche recondito spazio dell’anima, ma di me, della mia figura, della mia voce, del mio sorriso, di tutto l’amore immenso che provo per loro, cosa sarebbe rimasto? Questo pensiero mi ha accompagnato fino al momento in cui sono entrato in sala operatoria. Sotto i ferri si può anche morire e in quel momento mi sentivo pronto anche a quell’eventualità e fu proprio lì, sotto l’effetto di quel pensiero che capii che le bambine sarebbero cresciute, bene, anche senza di me, che dovevo lasciarle andare, perché, per quanto fossero figlie mie, non le possedevo, erano figlie della vita, soprattutto avevano un Padre più grande di me su cui avrebbero potuto contare. Pensai che Greta avrebbe trovato un lavoro, le avrebbe amate più di prima, raccontandole di me e di quanto le avessi amate. Loro mi avrebbero cercato nel silenzio di qualche foto e guardando i miei occhi e le mie labbra sorridenti avrebbero capito quanto le amavo, quanto fossi grato e pieno di questa vita. Magari avrebbero trovato qualche mia pagina, come quella che sto scrivendo, e mi avrebbero conosciuto un po’ di più, forse si sarebbero sentite felici di aver un papà così.
Avevo pure pensato di fare una serie di filmati, per quando sarebbero cresciute, in cui avrei raccontato di me e mia moglie, dell’amore che ci aveva abitato sin da quando eravamo bambini. Avrei detto qualcosa su come riconoscere, evitare e combattere il male, su come fare il bene, sempre, su come amare… ma non ho fatto nulla di ciò, mi sembrava di esagerare, quasi di non fidarmi del fatto che sarei uscito salvo da quella sala.
Mi sento un po’ a disagio a scrivere queste cose perché, come ho già detto, la mia non era una situazione così grave e a morire bisognava impegnarsi davvero. Eppure questo avvenimento importante della mia vita, mi ha portato a riflettere profondamente su alcuni aspetti fondamentali dell’esistenza, aspetti su cui prima avevo riflettuto solo in forma generica, senza soffermarmici troppo.
Come con mia moglie, con la quale cercavo di sdrammatizzare dicendole: “Ecco, muoio e tu resti vedova, ti trovi un altro”, oppure: “Guarda di non trovarti un altro!”, “Come fa una donna di trent’anni, di una bellezza sublime, a rimanere da sola?”. Lei mi guardava quasi piangendo e dicendomi che non ero altro che uno stupido idiota.
Ma anche in questo caso, per quanto innamorato fossi e per quanta gelosia potessi provare nel pensare a mia moglie insieme con un altro, capivo che anche lei, questa donna affidatami da Dio, non era mia, non mi apparteneva, non era un mio possesso. L’avrei dovuta lasciare andare e avrebbe fatto quello che si sarebbe sentita di fare: amare le figlie più di prima e magari trovare un altro uomo che l’avrebbe amata.
Come potevo avere la pretesa di dirle che non doveva trovarsi un altro uomo, anche nel caso in cui fossi morto? Non era e non è la mia schiava, non posso ordinarle niente. È mia moglie, una donna libera, che mi appartiene solo nella misura in cui lo ritiene. Non è roba, è carne e spirito umano, figlia di Dio, donatami da Lui stesso per averne cura, non per obbligarla ad alcunché… figuriamoci da morto!
La verità è che su questa terra nulla ci è dato in possesso, ma in affido. Che è ben diverso. Tutto è dono e grazia, perché ne abbiamo cura e amiamo, senza abusarne o distruggere quanto ci sta tra le mani.
Nemmeno la mia stessa vita mi appartiene, per il semplice motivo che il mio essere qui non è dipeso da me, non è stata una mia scelta. Per cui non io mi sono infuso l’alito dell’esistenza, ma Dio, attraverso quei sacri esseri che sono i genitori, che concorrono nel rendere reale non solo il loro desiderio, ma anche quello divino.
Nulla è in nostro possesso, ci illudiamo che sia così, ma poi scopriamo di dover lasciare tutto e tutti. 

Nulla ci appartiene, tutto è dono.

Il male, di cui ci riempiamo gli sguardi e i cuori, è poi così assoluto? O arriva come una furia e ci devasta, ma poi, senza accorgercene, più si allontana da noi, più noi ci riappropriamo del bene e della vita, e così di lui alla fine non rimane che un ricordo, magari sbiadito? Dove sta la sua forza se poi non vediamo l’ora che giunga il momento per fuggirlo e dimenticarlo? Che ce ne faremo se non saprà farsi amare? E un giorno non lo osserveremo, voltandoci indietro nel tempo, come una di quelle cime che ci hanno fatto patire, ma che hanno favorito uno nostro sguardo nuovo e più attento sull’orizzonte delle nostre esistenze?
In questi giorni di convalescenza, con questa ferita profonda che piega il mio corpo e questo mal di schiena che è tornato impavido a darmi battaglia, sto con la mia famiglia e niente al mondo mi pare più necessario di essa.
La mattina sento mia moglie che si sfila via dal talamo senza far rumore. Si sveglia con l’aurora, lei, guarda il giorno sorgere prima che il sole si affacci sul campo dietro casa.
Dopo di lei è la voce di Teresa, ancora così tenera e innocente. Sento i suoi passetti in giro per la casa, le sue paroline che racchiudono significati in pochi versi uniti a sguardi.
Ecco la grande, ma ancora così piccola, che mi si avvicina e mi porge una boccetta di olio benedetto.
“Papà…” mi dice fissandomi, mentre ancora me ne sto steso sotto le coperte, pigro ad uscire. “Papà…”. Vuole un segno di croce, sulla testa, sulla bocca, sul cuore. Apro la boccetta, mi ungo il pollice e la benedico. “Vai amore mio, il sole splenda su di te, sii buona e ama tutti”.
Poi è il silenzio della casa e dei miei momenti, di preghiera, lettura e scrittura.
Ma eccole di nuovo, tornano verso pranzo, una, due… tre nel pomeriggio. Eccole con la loro gioia, i loro perenni sorrisi, i loro giochi inventati. Eccole che corrono come pulcini tra le braccia della mamma, ma anche da me, più di quando tornavo da lavoro… Cercano un bacio, un abbraccio, una coccola dal loro papà.
Così fino a quando il giorno si congeda e lascia il passo alla notte. E di nuovo preghiere. E di nuovo benedizioni. E la casa si riempie di questo amore, che sgorga da dove? Da dove? Lo so bene da dove, lo sappiamo tutti in verità.
Sento che vorrei vivere così tutta la vita, e chi non vorrebbe? Che nient’altro mi serve, nessuna cosa od orpello, nessun grande viaggio o esperienza che sia, mi basta questo amore, queste bambine e questa moglie, nient’altro, questo mi basta e mi riempie di una gioia e di una pace che da tempo non provavo.
Eccolo, il male di cui dicevo, eccolo trasformato in bene, eccolo convertito.
Avevo pensato che durante il periodo di riposo mi sarei svagato con qualche libro e qualche film, aspettando pazientemente il ristabilirsi del corpo, azioni, queste, che effettivamente faccio. Ma non avevo intuito che ciò che mi avrebbe risanato maggiormente sarebbe stato proprio l’amore della mia famiglia, di cui anche ora mi sembra di sentir gonfiare la nostra casa come il vento sulle vele.

Alberto Trevellin (Padova 1988), laureato in scienze religiose prima a Padova, poi a Venezia, è insegnante di religione. Sostiene che i bambini salveranno il mondo e che senza di essi non potrebbe vivere. La mattina, quando si sveglia, guarda verso il monte Grappa, per il quale ha un amore smisurato. Ama camminare tra le alte cime delle Dolomiti, correre in mezzo ai boschi, andare per sentieri sconosciuti. È sposato con una donna che crede affidatagli da Dio e ha due bambine bellissime quanto vispe.

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