E’ tutta gente che lo stato ha scaricato nel deposito della città, il carcere, con la pretesa che la sola permanenza in quel parcheggio di ferro e di cemento recuperi le storiacce che destano paura solo a leggerle: tutti in carcere per omicidio, stupro, incendi dolosi, furto con scasso, spaccio di droga, acquisto di droga, compravendita di refurtiva. Terrore, terrorismo: la bellezza, quando viene zittita, produce tutto questo e morto altro. Eccoli affacciarsi alle sbarre: «Sembrano le anime in pena assiepate agli spiragli del purgatorio – scrive V. Hugo – quelle che si affacciano sull’inferno». I loro cognomi sono così pesanti d’essere stati fusi nel crimine commesso, diventando un tutt’uno. Non più il signor/signora-x, bensì l’omicida, il pedofilo, lo stupratore, il cocainomane, il mafioso, il killer. “Fine-pena-mai” è l’ergastolo; per chi non ce l’ha, il senso di “fine” lo sente comunque cucito addosso: l’errore commesso dice “chiuso per fallimento”. Fine corsa.
Poi, un giorno, suona la campanella in carcere. Non la sirena dei blindati, il tintinnìo delle chiavi, la voce ferrosa di cancelli sbattuti. No: la campanella della scuola, quella che t’annuncia che è qui dentro che il sapere avverte d’essere di grande utilità. Qualche giorno fa, all’interno del carcere di Padova, si è tenuta la solenne inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Padova: 44 studenti hanno rinnovato per l’ennesima volta la loro professione di fede nella scuola. «Vorrei sviluppare il concetto di riciclaggio nell’arte – racconta Andrea, che studia da consulente del lavoro -: alla fine anche noi siamo oggetti da riciclare anche se c’è chi vorrebbe buttarci nel cesso». Anche gli uomini-rotti, come le cose-rotte, si possono recuperare, riciclare, riportare a nuova vita. E’ la sfida della scuola in carcere: disarmare, lentamente, la violenza con la fragile potenza della grammatica, la precisione dei numeri, la fascinazione dell’arte, il pungolo della poesia. “Non sanno come ammazzare il tempo” commentano i più, ironizzando sul verbo “ammazzare” ch’è stato cagione di grossi guai, di micidiali colpi di mortaio, di morte. In carcere, però, il tempo non è da ammazzare: è da abitare, tutto tempo d’annaffiare. E’ questa, qui dentro, la sfida gigante della scuola: con l’incontro, incontrarsi. L’incontro con “Il fanciullino” di Giovanni Pascoli, con una equazione di secondo grado, con il “Narciso” di Caravaggio. E, incontrandosi e scontrandosi con questa bellezza, avvertire che il cuore si riordina, riaprendo e disinfettando le ferite.
Ci sono pochi posti, il carcere lo è, dove la scuola trova l’appiglio migliore per illuminare a giorno le giornate di buio tempestoso delle celle. E’ il fascino del sapere che torna a diventare sapore, rischiando di farsi sapienza. Chi ironizza il significato dell’Università in carcere, è come se avesse scordato il vecchio detto della nonna: “Chi disprezza, compra!” E’ il destino della scuola: quando ti tocca, la disprezzi. Quando sei a terra, la vai a cercare o, tutt’al più, l’apprezzi il giorno in cui lei ritorna. E ammetti che certi errori, più che per viltà, son stati commessi per ignoranza. L’ignoranza di non sapere chi sei, da dove vieni, verso dove stai andando: è la stagione della confusione.
Che, per chi vorrà, potrà venir riciclata.
(da Il Mattino di Padova, 31 marzo 2019)