cuore dita

«Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!»
La semplicità disarmante di questo saluto – l’addio tra l’aviatore ed il Piccolo Principe – riesce ad avere una precisione quasi chirurgica. Tocca le corde dell’animo e va esattamente lì, dove risiede il nervo scoperto di un legame che non cessa di essere tale nonostante una dolorosa e necessaria separazione.
Alzi la mano chi non l’ha sperimentata nemmeno una volta.
Fa male, di qualunque tipo sia il distacco: volontario o meno, temporaneo o no. E’ come una mano gelida che ci abbraccia da dentro, che ci stritola il cuore e che sembra farsi beffe del nostro dolore. L’amore, per il quale abbiamo speso tempo ed energie – di qualsiasi genere, da quello tra genitori e figli a quello tra amici o amanti – ha ora il sapore di sale di molte lacrime versate, il suono di qualche singulto spezzato. Davanti a lui due possibilità. Chiudersi a riccio, ripiegandosi su se stesso come un foglio accartocciato in balia delle folate di vento. Spesso è la tragica scelta immediata di chi vive la separazione come una frode ingiusta, piovuta dall’alto e imposta senza potervi porre rimedio. E’ il momento in cui la sofferenza, talvolta unita alla rabbia, chiede con ragione il suo tempo d’essere vissuta e metabolizzata. Volerne accelerare il processo è l’antitesi di qualsiasi carità. Farsi accanto ad essa, invece, vivendola insieme passo dopo passo, asciugandone le lacrime e ascoltandone le parole, è la quintessenza delle relazioni umane tra fratelli.
Oppure può protendersi senza timore, come un filo invisibile, tra noi e chi amiamo, a prescindere dal tipo di lontananza. Questo è il tipo di scelta in cui qualunque logica matematica fa clamorosamente cilecca, perché da questa divisione il sentimento non ne esce diminuito o impoverito, ma anzi si arricchisce e si moltiplica.
Cuore di genitore, di figlio, di fratello, d’innamorato o cuore d’amico. Un pezzettino di te si fa spuntare le ali e spicca il volo, andando a palpitare lontano, insieme a chi hai dovuto salutare. E insieme a te anche la mente, che non vuole essere da meno. Alla sera e al mattino, soprattutto, oppure in momenti inattesi e improvvisi, i pensieri travalicano ogni spazio e regalano abbracci eterei che vorrebbero tramutarsi in reali, ma non possono. La sensazione è di sentirsi, a volte, sdoppiati. Una parte di noi vive altrove: un’acrobazia di mente e cuore che lascia sconcertati coloro che non sanno guardare più in là del proprio naso, o che magari hanno in dono la sorte di non avere mai sperimentato una situazione simile.
«E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre), sarai contento di avermi conosciuto. Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me.»
Si dice che il tempo mitighi le ferite e allevi il dolore. Nessuno mai però ci dice quanto ne serva, così si finisce che si contano i giorni, i mesi, gli anni, con la speranza che presto o tardi le cicatrici si rimarginino. Desiderare che scompaiano, tuttavia, ci è impossibile quanto lo smettere di respirare: la strada che abbiamo percorso insieme fa ormai parte di quel che siamo diventati, il bene ricevuto è un tesoro che non si può rinnegare per nessuna ragione al mondo. La punta di nostalgia che ancora si prova, anche dopo anni, è il segno tangibile che quel sentimento è sempre presente e che ormai si è adagiato, sedimentandosi, nel nostro io più profondo.
Il vuoto che lascia chi si allontana da noi è una delle paure che maggiormente attanagliano l’animo umano. Possiamo affrontarla, però, con la consapevolezza che questo vuoto riusciamo a vincerlo solo se lo riempiamo d’amore.

Credit photo: pxhere

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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