La voce del profeta Isaia si leva forte, in un momento di smarrimento e di difficoltà. I popoli vicini ad Israele, in particolar modo quello assiro, sono bellicosi ed aggressivi e la situazione non promette nulla di buono. Consapevole dell’esiguità del popolo giudeo, il re ed i suoi consiglieri stanno seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di allearsi con il potente Egitto, per avere qualche possibilità di salvezza.
Isaia – e con lui faranno altri profeti - invita ad avere una visione teologica e teleologica e non solamente politica della realtà. Invece di confidare nella potenza di un esercito, interpella la fede degli israeliti e li invita alla conversione, così da potersi rivolgere a Dio, con la speranza di poter essere ascoltati. Perché non c’è Padre capace di volgere altrove lo sguardo, quando il figlio lo chiama; chiunque egli sia e qualunque possa essere la malefatta che ne macchia l’animo e ne sotterra la speranza di rinascita.
«Per questo sorge: per avere pietà di voi!» (Is 30, 18), puntualizza il profeta: non è un innalzarsi feroce ed impetuoso, per fare “piazza pulita”.
Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, non si terrà più nascosto il tuo maestro (Is 30, 20)
Tuttavia, è bene non illudersi: la fede non esime dal prendersi le proprie responsabilità, non elimina le difficoltà. Eppure, lascia la consapevolezza di una Presenza: in Sua compagnia, è possibile guardare con speranza anche agli acciacchi del tempo e della vita, ai capovolgimenti di fronte, ai tradimenti degli amici, degli amori, della politica o del lavoro.
La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, come la luce di sette giorni, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo (Isaia 30,26)
Sul finale del brano propostoci dalla liturgia, abbiamo un suggerimento sullo sguardo con cui rivolgerci a Dio. È bene sia uno sguardo di fiducia confidente. L’indicazione della luce e il numero sette alludono ad una sapienza senza confini. Come creatura uscita dalle Sue mani, l’uomo può rivolgersi a Lui, sapendo che non c’è nulla di ciò che egli può attraversare che possa essere considerato estraneo, ai Suoi occhi. «Egli ci ha fatti e noi siamo suoi» (Sal 99): ecco perché, quale medico premuroso, non prova ribrezzo di fronte alle nostre ferite, neppure quando, per l’ostinazione di non rivolgerci a Lui, si sono infettate, incancrenite, oppure, pur richiuse, hanno fatto la piaga e, ancora, ogni volta che le tocchiamo, il dolore pungente non ci abbandona. Perché, più della sofferenza fisica, ciò che martoria il nostro cuore è quel tarlo, che ogni tanto s’insinua, che non ci è dato ricevere aiuto e cura, che l’unica cosa che ci è consentita è di allontanarci, per richiuderci nel nostro dolore. Come i gatti, che vanno a morire in un angolo. Questa solitudine viene dal Nemico, che ci preferisce soli, per poter avere la meglio su di noi. Deciderci finalmente a mostrare la ferita, anche se piagata, al Padre, è l’unica soluzione per ricevere finalmente sollievo, perché non riceviamo solo la medicina più opportuna, ma anche la garanzia che siamo nelle Sue mani e nel Suo sguardo, sempre.
Nel Vangelo, cogliamo un moto d’insofferenza, nel tentativo di contrapporre il Precursore al rabbi di Galilea. Qualcuno, fin troppo zelante, si affretta ad avvertire il Battista:
«Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano e al quale hai dato testimonianza, ecco, sta battezzando e tutti accorrono a lui» (Gv 3, 26)
Giovanni, però, non abbocca all’amo di una facile invidia, che respinge, trasformandola nella testimonianza di un’anima pura ed appassionata: «Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire»(Gv 3, 30-31). Nella similitudine con l’amico dello sposo troviamo il più alto esempio di condivisione della gioia, scevra di ogni invidia. In un matrimonio, al centro dell’attenzione troviamo la coppia di sposi e, molto spesso, uno sposo quasi incredulo di essere riuscito nell’impresa di risultare gradito ad una fanciulla di cui, sulle prime, magari pensava di non essere all’altezza per diversi motivi. Ora, invece, tutto va per il meglio. O, meglio, qui inizia una nuova avventura. Perché il matrimonio è – sempre – un’esperienza nuova, che mette in discussione ed apre verso nuove prospettive.
Forse, proprio per questo, diventa “banco di prova” per le amicizie più vere. I veri amici sapranno condividere la gioia dello sposo. Non vedranno la sposa come “concorrente” nel tempo libero dello sposo, ma sapranno vedere nella felicità del loro amore un motivo in più per gioire con loro.
Come spesso accade, nell’Epistola troviamo la “chiusura del cerchio”:
Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. (2Cor 4,4)
È Dio ad averci amati per primo, eppure il primo modo per dimostrarGli la nostra gratitudine è rivolgere noi stessi quel Suo sguardo di misericordia, capace di far sentire amati, sui nostri fratelli. Questo è vero indipendentemente dalle gerarchie, ma dovrebbe essere a maggior ragione vero per chi ne fa parte. La consapevolezza di essere a servizio di Dio, tramite il servizio al popolo di Dio dovrebbe essere il miglior antidoto a dispotismi e protervia.
Chi ama, serve. E serve con amore, facendosi imitatore di Cristo, che dedica attenzione ed ascolto, così come il medico si dedica alla ferita da fasciare, bendare, medicare.
Nella concretezza, spesso, questo si traduce in un’opera di misericordia spirituale, spesso sottovalutata che, però, se vissuta veramente, può costarci davvero molta fatica: sopportare pazientemente le persone moleste. Talvolta, una persona si rivela molesta perché assetata di attenzione, di uno sguardo che si posi su di lei, senza accuse, pregiudizi. Solo per avere la possibilità di essere ascoltata nel profondo, nel suo anelito d’infinito.
Potrebbe persino capitare che, mentre cerchiamo chi possa essere questa persona, ci accorgiamo che siamo proprio noi, che abbiamo bisogno di respirare l’aria buona che viene dal sentirsi guardati in modo individuale, come un figlio unico e atteso da tempo.
Riferimento: letture festive ambrosiane nella V domenica di Avvento, anno C (Isaia 30, 18-26b; 2Cor 4,1-6; Gv3, 23-32a)
Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
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