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Questa domenica, nel rito ambrosiano, celebriamo la solennità Gesù Cristo, Re dell’Universo: come nel rito romano, questa solennità fa da anticamera al periodo d’Avvento (che, nel caso ambrosiano, è di sei settimane, invece delle quattro romane).
Sconcerta sempre un po’, memori della funzione di questa solennità – apripista, ritrovarsi catapultati nella contemplazione di pagine prettamente pasquali, come la prima lettura che contiene uno dei “canti” del servo di Jahvè, contenuta nel libro di Isaia.
Con metafore belliche (la spada affilata, la freccia appuntita), esso è descritto come un guerriero, come qualcuno che non si lasci intimorire dalle avversità. A questo proposito, è naturale pensare al vangelo di Marco in cui si dice che Gesù, avvicinandosi a Gerusalemme, dove sarebbe poi stato crocifisso, rese la sua faccia dura come la pietra: cioè, non si sottrasse alla divina volontà, ma entrò nella Città Santa con la piena consapevolezza di ciò che lo avrebbe atteso.
Noi cristiani, del resto, tendiamo a ragionare un po’ a “compartimenti stagni”: a Natale Gesù nasce, a Pasqua muore, in Avvento ci prepariamo al Natale, in Quaresima alla Pasqua.
C’è una domanda che sussiste, come sotto traccia e presuppone la compagnia costante nel viaggio di ogni uomo che si sforzi di credere: chi è Gesù e che ruolo ha, nella mia vita?
Senza la presenza costante di quest’interrogativo, quale nostro pungolo ad approfondire la conoscenza di Cristo, tutto il resto rischia di rimanere eluso, come se non fosse mai esistito.
Nel Natale, invece, inizia già la Passione. Con l’Incarnazione, Cristo, abbandonando l’Eternità, ha scelto di vestire la finitezza di un corpo mortale, approssimandosi, con la nascita, alla morte. Il legno della stalla è già richiamo di quello della Croce: su quel bimbo in fasce pende già un destino atroce. «Una spada ti trafiggerà il cuore» dice Simeone a Maria: sin da subito, quell’adolescente madre di Dio non ha potuto coltivare illusioni sul frutto del suo grembo. Colui che aveva partorito non era per lei, ma era dono per l’umanità, che l’umanità avrebbe rinnegato, preferendoGli il Nemico.
Il paradosso della regalità di Cristo trova l’apoteosi nella culla di Betlemme. Quello avvolto in fasce, a patire il freddo e la ruvidità della paglia è il Re dell’Universo, il Signore del Mondo.
La sua onnipotenza si mostra nella fragilità di un corpo bambino, nella povertà della dimensione umana. Sin dalla sua nascita, Cristo è un ossimoro vivente.

«La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, reso debole dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re d’umanità, dell’unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice» (C. Bobin, L’uomo che cammina)

È l’amore che rende Dio così fragile e debole. Per amore, sceglie di farsi prossimo all’uomo e manifesta lo “stile di Dio” sin da subito, perché «il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10, 45). Sì, perché Gesù è quel Re che si china a lavare i piedi dei suoi apostoli, che si preoccupa per la loro stanchezza e li invita a cercare ristoro, per non andare senza meta come vagabondi. Forse, tra tutte, la caratteristica che più colpisce è proprio questa: un sovrano che chiama per nome i propri sudditi, comprendendo cioè l’unicità di ognuno di essi, come evidenzia il Salmo 146 («conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome».)

Nella sua atipicità, la regalità di Cristo diventa particolarmente interessante, per quello che comunica a noi, alla nostra vita.
Innanzitutto, ci ricorda che se Dio, Re dell’universo, ha accettato di farsi piccolo, fino all’annientamento di Sé, per la nostra salvezza, mostrando come la vera grandezza consista nel servizio, questo vale a maggior ragione per noi, tanto che, ai discepoli che volevano gareggiare per una posizione di primato, il Cristo puntualizza: «chi vuol essere il primo, sia il servo di tutti» (Mc 10, 44). Se servire è strada per la grandezza, chi vuol essere più grande, può solo essere maggiormente servo, sull’esempio del Nazareno. Da ciò, consegue l’esortazione paolina, che dovrebbe diventare un motto ineludibile, oltreché uno stile di vita: «Fate a gara nello stimarvi a vicenda» (Rm 12, 10). Se la vera gara è per essere più servi degli altri, allora occorre pensare di incoraggiarci a vicenda lungo una strada che, seppur impervia a causa dell’orgoglio connaturato all’essere umano, è tuttavia strada di libertà, pre-corsa dal Maestro e mostrataci per la nostra felicità.
In secondo luogo, guardare a Dio come re, ci ricorda chi riveste (o, forse, meglio: dovrebbe rivestire) il ruolo primario nella nostra vita. Ognuno di noi ha senza dubbio mille cose importanti da fare e che è necessario faccia per far stare bene chi gli è vicino. Alle volte,però, la questione è cambiare la mentalità da dentro: andare a Messa, pregare, coltivare il proprio rapporto con Dio dovrebbe svincolarsi dall’essere “cosa fra le cose”, diventando, al contrario, ciò che dà significato a tutto il resto. Non si tratta, insomma, di moltiplicare il tempo della preghiera (ben venga, qualora ce ne sia la possibilità, ma mi pare inutile fare buoni propositi irrealizzabili), bensì di immergere il nostro tempo nel tempo di Dio, così di darGli opportunità di donarci la Sua grazia.
Buona Festa di Cristo Re: perché ciascuno possa sperimentare la vera libertà che deriva da questo essere suddito, al centro dei pensieri del proprio Re, più di quanto avvenga il contrario!

Rif: letture festive ambrosiane, nella solennità di Cristo Re dell’Universo: Is 49,1-7; Sal 21; Fil 2,5-11; Lc 23,36-43


Fonte immagine: Cruxnow

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